Fatti
“Le tensioni al confine ci preoccupano profondamente. Come Chiesa, siamo chiamati a resistere alle ideologie che dividono e a costruire ponti di fraternità”. Con parole misurate ma ferme, mons. Francis Xavier Vira Arpondarattana, presidente della Conferenza episcopale thailandese, commenta la crisi in corso lungo la frontiera con la Cambogia. Mentre il conflitto rischia di colpire duramente le comunità più fragili, la Chiesa si fa prossimità, preghiera e voce di pace.
Eccellenza, come legge la Chiesa cattolica thailandese questo tempo di tensione armata lungo il confine?
Lo guardiamo con profonda inquietudine, ma anche con il discernimento che ci viene dalla Dottrina sociale della Chiesa. Le tensioni di confine, benché presentate come questioni territoriali, sono spesso strumentalizzate per alimentare nazionalismi esasperati e distrarre da crisi interne.
In questo gioco pericoloso, sono sempre i più deboli a pagare il prezzo più alto: famiglie costrette a fuggire, comunità divise, vite spezzate.
La nostra preoccupazione cresce di fronte al diffondersi di ideologie che seminano sospetto e chiusura. La fraternità tra popoli non è un’utopia: è l’unica via percorribile per una pace duratura. Serve il coraggio di affrontare le radici storiche del conflitto – spesso legate a eredità coloniali – con spirito di verità, giustizia e riconciliazione.
Quali risposte pastorali la Chiesa sta mettendo in campo per le comunità colpite?
Prima di tutto, la vicinanza concreta. Le nostre comunità locali si stanno mobilitando per offrire accoglienza, viveri, medicinali, sostegno psicologico e spirituale a chi si trova in difficoltà. Il Coerr, l’ufficio caritativo della nostra Conferenza episcopale, è operativo in prima linea.
Sacerdoti, religiosi e volontari visitano le famiglie nei villaggi di confine, portano parole di consolazione, ascoltano le ferite. Ma accanto alla carità, c’è la forza silenziosa della preghiera: messe per la pace, veglie, rosari comunitari.
Crediamo che solo da cuori riconciliati possa nascere una pace vera. Condanniamo con fermezza ogni atto di violenza contro i civili: il rispetto del diritto umanitario è un principio non negoziabile. La vita, sempre, viene prima di ogni strategia o interesse
Crisi al confine tra Thailandia e Cambogia
Dal 24 luglio 2025 è in corso un conflitto armato tra Thailandia e Cambogia lungo la frontiera orientale. Gli scontri, iniziati nella zona di Ta Muen Thom, hanno provocato almeno 32 vittime, tra cui civili, e oltre 130mila sfollati. Le autorità thailandesi hanno dichiarato la legge marziale in otto distretti. Al centro delle tensioni, dispute territoriali irrisolte, anche legate al tempio di Preah Vihear. La comunità internazionale è al lavoro per scongiurare un’escalation.
La preghiera può davvero incidere in contesti così complessi?
La preghiera non è evasione. È il primo gesto di solidarietà, è l’energia che muove la speranza. In tutta la Thailandia si stanno moltiplicando iniziative di preghiera: ogni parrocchia, ogni famiglia, ogni comunità religiosa è invitata a invocare la pace con perseveranza. È il modo più autentico per restare vigili, radicati in una fede che crede nella forza trasformante dell’amore. Contemporaneamente, non smettiamo di organizzarci anche sul piano pratico: la rete della solidarietà si sta già attivando per un eventuale prolungamento della crisi. Ma preghiamo intensamente che non sia necessario. La pace resta possibile, se si vuole.
Esiste un coordinamento con la Chiesa cattolica cambogiana?
Assolutamente sì.
I rapporti tra le nostre due Conferenze episcopali sono profondi, fraterni, consolidati da anni di collaborazione. Siamo in contatto costante con i vescovi della Cambogia, condividiamo informazioni, preoccupazioni, preghiere.
Alcuni nostri missionari operano proprio lì, in spirito di servizio e comunione. In questi giorni di tensione, questo legame assume un significato ancora più forte: ci dice che la comunione ecclesiale è più forte di qualsiasi frontiera. Anche in mezzo al rumore delle armi, c’è una Chiesa che costruisce pace in silenzio, con gesti umili ma incisivi.
Che appello rivolge alla comunità internazionale e alla Chiesa universale?
Un appello che nasce dalla fede e dal cuore: non smettiamo di credere nella pace. La pace non è solo assenza di guerra: è giustizia, rispetto, verità, riconciliazione. La comunità internazionale ha il dovere morale di difendere la vita dei civili, di sostenere processi di mediazione, di promuovere soluzioni giuste e condivise. Alla Chiesa universale chiediamo di accompagnarci con la preghiera, ma anche con azioni concrete: progetti di cooperazione, sostegno umanitario, investimenti nella cultura dell’incontro. Crediamo che un’altra via sia possibile: una via di dialogo, fraternità, sviluppo condiviso. La vera sicurezza nasce da mani che si stringono, non da confini armati.