Chiesa
“Essere in minoranza, vivere in un Paese musulmano, ci porta a cercare l’essenziale anche nell’annuncio dell’amore di Cristo”. Mons. Paolo Martinelli, vicario apostolico dell’Arabia Meridionale, ha guidato a Roma una delegazione di novanta giovani dal Golfo per il Giubileo dei giovani. Racconta la forza dell’esperienza vissuta, il significato di essere Chiesa in minoranza e condivide una parola di dolore e responsabilità dopo il naufragio avvenuto al largo dello Yemen.
Cosa ha significato per lei accompagnare i giovani del Vicariato al Giubileo dei Giovani a Roma?
È stata una gioia immensa stare e camminare con i nostri giovani. Soprattutto rimane per me indimenticabile il percorso che abbiamo fatto insieme da Castel Sant’Angelo fino alla Porta Santa di San Pietro. I nostri giovani all’inizio mi hanno consegnato la croce giubilare che ho voluto portare per tutto il percorso fino alla Porta Santa. Abbiamo cantato e pregato insieme. Abbiamo avuto il tempo di pregare il Rosario, cantare salmi e recitare il Credo, che quest’anno meditiamo in modo particolare ricordando i 1700 anni del Concilio di Nicea.
Quale senso ha avuto per lei, come vescovo, questo cammino simbolico e spirituale?
Camminare con loro verso la Porta Santa ha voluto dire fare memoria di Cristo Buon Pastore che non ci abbandona mai, che è sempre pronto al perdono e a donarci un nuovo inizio. Per me, come vescovo, è stato importante stare con loro per esprimere la vicinanza di tutta la Chiesa al loro cammino, in questo tempo particolare della loro vita – la giovinezza – tempo in cui approfondire le domande sul senso della vita, in cui fare discernimento sulla propria vocazione, scoprire quale sia la volontà di Dio per la propria esistenza.
Nessuno è nato per caso; ci siamo perché siamo amati e voluti da Dio. È importante che i giovani non si sentano mai soli ma vedano la Chiesa al loro fianco, che li sostiene nel loro cammino di fede.
Quale testimonianza hanno portato e ricevuto i giovani dell’Arabia nella Chiesa universale?
La Chiesa nel Golfo è davvero unica. Siamo una Chiesa di migranti, composta da fedeli che provengono da oltre cento nazionalità diverse, e questo si vede anche tra i nostri giovani. Questa condizione li rende più consapevoli dell’universalità della nostra fede e del fatto che l’incontro con Cristo è per tutti. Per questo penso che la loro presenza sia stata un segno per tutti di come la fede unisce nella diversità. Quando si è consapevoli che abbiamo ricevuto tutti lo stesso battesimo, abbiamo tutti la stessa fede cristiana, le differenze culturali diventano una ricchezza per tutti, un arricchimento vicendevole.
Il vicariato apostolico dell’Arabia Meridionale
Comprende gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e lo Yemen. La Chiesa è costituita interamente da migranti, provenienti da oltre cento Paesi, in gran parte dell’Asia e dell’Africa. La sua struttura pastorale si fonda su parrocchie multilingue, animate da religiosi, religiose e laici impegnati nella catechesi, nella liturgia e nell’accompagnamento spirituale. Mons. Paolo Martinelli ne è vicario apostolico dal 2022. Nonostante le restrizioni alla libertà religiosa, la comunità cristiana testimonia il Vangelo attraverso la carità, il dialogo e una fede vissuta nella quotidianità.
Quali tappe hanno segnato il loro pellegrinaggio prima dell’arrivo a Roma?
Prima di arrivare a Roma, i nostri giovani hanno fatto visita a diverse città italiane dove si venerano diversi santi: san Giovanni Bosco e il beato Pier Giorgio Frassati a Torino, san Carlo Borromeo a Milano, sant’Antonio da Padova, san Francesco, santa Chiara e il beato Carlo Acutis ad Assisi, santa Rita da Cascia e san Padre Pio da Pietrelcina a San Giovanni Rotondo, fino ad arrivare a Roma, dove gli apostoli Pietro e Paolo hanno dato la vita per Cristo. Sulla tomba di Pietro abbiamo trovato la radice della nostra vita cristiana. La fede di Pietro in Cristo è la roccia su cui costruire la vita.
Come hanno vissuto i giovani l’esperienza di Roma e l’incontro con il Papa?
Essere qui a Roma insieme a così tanti altri giovani da tutto il mondo è stato per loro un conforto e una immensa gioia.
Hanno potuto sperimentare in modo forte un profondo senso di appartenenza alla Chiesa, al popolo santo di Dio diffuso in tutto il mondo.
Le parole di Papa Leone durante la veglia e nell’omelia hanno infuso coraggio: “Aspirate a cose grandi, alla santità, ovunque siate. Non accontentatevi di meno. Allora vedrete crescere ogni giorno, in voi e attorno a voi, la luce del Vangelo”. Queste parole di Papa Leone hanno parlato al cuore dei nostri giovani. Non dobbiamo avere paura di desiderare cose grandi. Dio ci ha fatto per questa grandezza, ci ha fatto per Lui, come ricorda sant’Agostino. E il cuore dei giovani non può che trovare in Cristo la verità e la vera gioia.
Come si annuncia oggi l’amore di Cristo in contesti dove i cristiani sono minoranza?
Essere in minoranza, vivere in un Paese musulmano, ci porta a cercare l’essenziale anche nell’annuncio dell’amore di Cristo. Dico sempre ai nostri giovani che nessuno ci può impedire di vivere la testimonianza cristiana nella vita quotidiana. Noi siamo chiamati a vivere secondo il mistero che celebriamo nell’Eucaristia. Siamo chiamati a essere testimoni del Vangelo con le parole e con la vita: nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità, nella scuola, nel posto di lavoro, nella società.
Come si concilia questo con le restrizioni alla libertà religiosa?
Noi non possiamo fare attività di proselitismo. Per noi è importante ricordare quanto affermava Benedetto XVI: il cristianesimo si diffonde per attrattiva, non per proselitismo; attraverso la testimonianza di una vita cambiata dall’incontro con Cristo.
Nel nostro contesto è molto importante coltivare rapporti di rispetto con fedeli di altre religioni.
Nel 2019 Papa Francesco era venuto ad Abu Dhabi per firmare il Documento sulla Fratellanza umana insieme al grande imam di Al-Azhar. Il dialogo è parte della testimonianza. È importante aiutare i nostri giovani ad avere rapporti di collaborazione con fedeli di altre religioni, nella consapevolezza della nostra identità e nella valorizzazione della comune ricerca di Dio.
Alla luce del naufragio in Yemen, quale parola sente di dover offrire come pastore di una Chiesa sulle rotte migratorie?
Il naufragio accaduto vicino alle coste dello Yemen è motivo di grande dolore e tristezza, come bene ha espresso Leone XIV nel suo messaggio di cordoglio attraverso il segretario di Stato, il card. Pietro Parolin. Purtroppo, si tratta di un fenomeno che si ripete non di rado. Sono viaggi organizzati da trafficanti che spesso hanno esiti nefasti, come in questo caso. Preghiamo per le vittime: il Signore le accolga nella sua pace; i sopravvissuti possano essere curati degnamente e ritrovare serenità.
Come la Chiesa può contribuire a un cambiamento reale?
Come Chiesa di migranti credo sia importante sottolineare
l’importanza dei processi migratori, così diffusi nel mondo intero.
Sono processi che devono essere governati sapientemente attraverso politiche migratorie oculate e sagge, interrompendo questi viaggi organizzati da trafficanti senza scrupoli.
Quale mandato affida ai giovani di ritorno e quale eredità lascia alla Chiesa dopo questo Giubileo?
Chiedo a loro di essere testimoni di Cristo, innanzitutto verso gli altri giovani che vivono nel nostro Vicariato apostolico, e di essere segno di speranza per tutti. Spero davvero che la gioia di questi giorni a Roma, attraverso di loro, possa contagiare anche gli altri giovani. Inoltre, chiedo a loro di essere fedeli al desiderio di felicità che hanno dentro il cuore, di guardare alla propria vita come a un dono che viene da Dio, e di poter scoprire, alla luce del Vangelo, la propria strada, la propria vocazione e missione.