Idee
Una donna dorme, il capo poggiato sulle gambe di un uomo in carrozzina. Lui ha le cuffie, il corpo disteso, il volto rilassato. Lei è seduta su una sedia di plastica blu, completamente abbandonata, il braccio sulle gambe di lui. È il tardo pomeriggio di sabato, poco prima della veglia del Giubileo dei giovani. Intorno, Tor Vergata brulica di volti, zaini, attese. Ma in quell’angolo silenzioso accade qualcosa che sfugge al rumore.
È passata una settimana. Restano le immagini ufficiali, le parole di Leone, la gioia di una generazione riunita a Roma. Ma restano anche alcune istantanee più piccole, che non cercano attenzione e per questo parlano con forza. Questa è una di quelle.
Non c’è nulla di straordinario. Nessun gesto evidente, nessun eroismo. In quell’equilibrio precario – tra una sedia con le zampe e una con le ruote – si rivela una fiducia reciproca che non ha bisogno di parole. Nessuno fa qualcosa per l’altro. Stanno. Uno accoglie, l’altra si lascia accogliere. E questo basta.
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Colpisce l’abbandono del corpo, il braccio lasciato andare, il capo che si posa. Ma ciò che sorprende davvero è l’inversione dello sguardo: non è la persona con disabilità ad aver bisogno di sostegno. È lei che si appoggia. È lui che regge. Che custodisce il sonno.
C’è una bellezza sobria, in questo scambio muto. Forse perché capovolge ciò che di solito si dà per scontato. Forse perché dice, con semplicità, che si può essere forti anche da seduti. Che si può diventare casa per qualcuno restando fermi. Che basta non spostarsi, quando l’altro si addormenta.
È successo così, tra i canti e le bandiere, mentre il prato si preparava alla veglia. Due persone hanno costruito una tregua. Involontaria, forse. Ma vera. Un equilibrio discreto, che ha detto l’essenziale senza far rumore.
Non era una scena marginale. Era una scena che ricordava come l’amore, quando è autentico, si manifesta così: nella capacità di esserci.
Senza clamore. Senza dichiarazioni. Restare immobili mentre l’altro si affida. Offrire stabilità anche solo per un attimo. Anche solo per una sera.
In quella postura condivisa si disegna un volto di Chiesa che spesso sfugge alle narrazioni ufficiali. Non la Chiesa perfetta, ma quella che conosce la stanchezza, che si lascia interpellare, che riconosce la sacralità di ogni corpo. La Chiesa che si fa casa, anche dove non ci sono pareti.
Roma, con le sue contraddizioni, resta una città difficile. Eppure qualcosa si è visto. Tra le polveri e i dislivelli, tra gli ostacoli e la pazienza di chi ha saputo accompagnare, il Giubileo ha reso visibile – ancora una volta – l’anima inclusiva della Chiesa. Forse è una vocazione antica, questa capacità di accoglienza. Forse la Chiesa si riconosce proprio in questi gesti, dove ogni persona diventa presenza necessaria, mai accessoria
In alcuni momenti, questa vocazione si lascia vedere. Si fa corpo. Si fa gesto. Si fa riposo.
E allora no, non era una scena da nulla. Era un Vangelo incarnato. Due persone che si affidano. Una che si appoggia. L’altra che sostiene.
E ora che la veglia è finita, che la folla si è dispersa, quell’immagine resta. Come restano le cose vere.
Senza fare rumore.