Alla ricerca dell’immortalità: tra biotecnologia, potere e fragilità umana
Nei giorni scorsi, un microfono “indiscreto” ha catturato a Pechino una conversazione informale tra Vladimir Putin e Xi Jinping durante la parata della vittoria. I due leader, commentando i progressi delle biotecnologie, hanno evocato l’idea che un domani si possano sostituire ripetutamente gli organi umani, arrivando così a prolungare la vita fino a 150 anni o addirittura a “sconfiggere la morte”. L’episodio ha fatto il giro del mondo, alimentando curiosità e discussioni.
Nei giorni scorsi, un microfono “indiscreto” ha catturato a Pechino una conversazione informale tra Vladimir Putin e Xi Jinping durante la parata della vittoria. I due leader, commentando i progressi delle biotecnologie, hanno evocato l’idea che un domani si possano sostituire ripetutamente gli organi umani, arrivando così a prolungare la vita fino a 150 anni o addirittura a “sconfiggere la morte”. L’episodio ha fatto il giro del mondo, alimentando curiosità e discussioni. Al di là della suggestione, occorre distinguere i fatti dalle illusioni. La scienza biomedica compie indubbiamente passi da gigante: si sviluppano tecniche di “bioprinting” di tessuti, si sperimentano approcci di rigenerazione cellulare e si testano farmaci che rallentano alcuni processi dell’invecchiamento. Tuttavia, parlare di “sostituzione seriale” di organi come se l’uomo fosse una macchina da riparare è oggi del tutto irrealistico. Ogni trapianto comporta gravi rischi, richiede terapie immunosoppressive e non elimina comunque il deterioramento complessivo dell’organismo. Gli scenari di immortalità biologica restano, almeno per ora, nel campo della fantascienza. Ed è proprio qui che emerge il nodo più interessante, non tanto scientifico quanto antropologico ed etico:
perché l’idea di vivere per sempre continua a esercitare un fascino così potente?
L’essere umano è l’unico vivente capace di anticipare mentalmente la propria fine, e questo genera un misto di paura e desiderio. Paura della caducità, desiderio di oltrepassare il limite. Quando a coltivare questa aspirazione sono figure di grande potere e ricchezza, l’ansia di immortalità assume talvolta i tratti della “hybris”, la tentazione di sottrarsi alla condizione comune a ogni altro uomo. In chiave personalista, il limite non è un difetto da rimuovere, ma ciò che ci richiama alla nostra unicità e irripetibilità.
L’uomo non si riduce a un insieme di organi da sostituire, ma è una persona, cioè un essere relazionale, dotato di interiorità, chiamato a realizzarsi nella libertà e nel dono di sé.
La vita biologica è fondamentale, ma non esaurisce la ricchezza dell’esistenza: ciò che fa di noi degli uomini e delle donne è la capacità di intrecciare legami, di costruire senso, di custodire la dignità propria e altrui. Nella tradizione filosofica e religiosa, il tema del limite è centrale. L’etica della cura ci ricorda che la fragilità è parte costitutiva della vita e che il valore di un’esistenza non coincide con la sua durata cronologica. L’accanimento nel prolungarla ad ogni costo rischia di trasformarsi in una nuova forma di “accanimento tecnologico”, che promette molto ma rischia di aumentare disuguaglianze e illusioni. Non a caso, molte correnti della bioetica insistono oggi sul criterio della proporzionalità delle cure: distinguere ciò che è ragionevole e benefico da ciò che diventa sproporzionato e dannoso. Il dibattito aperto da quella frase carpita a Pechino può dunque essere l’occasione per una riflessione più ampia:
cosa significa davvero vivere a lungo?
È sufficiente prolungare la funzionalità del corpo, o piuttosto occorre promuovere la qualità delle relazioni, la solidarietà, la dignità? In prospettiva personalista, la risposta è chiara: la persona non si misura sul tempo biologico, ma sul valore della sua storia, della sua libertà e del suo amore donato.
Forse la vera “immortalità” a cui tendere non sta nell’illusione di sfidare la morte con la tecnologia, ma nella capacità di lasciare tracce di bene nella storia comune.
L’uomo non è fatto per vivere all’infinito: è fatto per vivere con senso, e riconoscere questo limite non significa arrendersi, ma accogliere pienamente la propria umanità.