Nell’economia dell’era dell’informazione, il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza. L’odio, invece, è merce preziosa, da coltivare e da far fruttare. Numerosi i profeti e gli imprenditori dell’odio: influencer, politici e comunità accoglienti, pronte a inglobare i singoli in un “noi” informe da contrapporre ai “loro”, il nemico da abbattere. Ben lungi dall’allontanare o dal ricacciare l’oggetto dell’odio, questi profeti lo accudiscono con approfondimenti, disamine e scenari dettagliatissimi, sempre aggiornati, attorno ai quali costruire la propria identità. Odio ergo sum.
Gli oggetti dell’odio sono numerosi, disponibili in un vastissimo assortimento di affiliazioni politiche, religiose e geografiche. All’odio sono pronti singoli individui e intere categorie. Non conta chi si odia, ma come. Blog, giornali, video su YouTube,
post sui social media, libri, interi podcast: gli odiatori migliori conoscono vita, morte e miracoli del loro bersaglio, dedicandogli tempo e studio persino superiore a quello dei fan più accaniti.
Lo vediamo bene noi che lavoriamo nell’informazione e nei social media: un post “a favore” raccoglie solo una frazione dell’interesse e clic di un post “contro”. Ma il sistema politico, pubblicitario e di intrattenimento ha ingegnerizzato l’odio, trasformandolo in carburante. Ci fanno odiare qualcuno o qualcosa non per odio, ma per guadagno: voti in cambio dell’odio contro i migranti, soldi per integratori alimentari nell’odio contro i vaccini. È un sistema florido.
Ogni tanto quest’odio reclama un tributo di sangue. Un conduttore radiofonico – noto per la sua scarsa igiene personale – ha come slogan: «Nessuna violenza fisica, la massima violenza verbale». Non funziona così: la storia dimostra l’esatto contrario, ovvero che quando le parole si fanno violente – soprattutto se inserite in sistemi organizzati di propaganda – prima o poi ci scapperà sempre il morto.