Idee
“Dietro ogni vicenda giudiziaria c’è sempre una persona, che ha vissuto e vive in una situazione di grande sofferenza. Questa premessa, fondamentale, ci consente di avere una visione non parziale ma totale, sia degli episodi criminosi che di chi li ha commessi. Credo quindi, come magistrato, che agire tenendo presente questo presupposto in qualche modo ci aiuta e ci permette di vivere ogni giorno il nostro Giubileo”. A parlare è Raffaele Cantone, magistrato e saggista italiano, dal 2020 Procuratore della Repubblica a Perugia. Già presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, consulente della Commissione parlamentare antimafia, Cantone non si nasconde e confessa di non aver partecipato a nessuna delle manifestazioni ufficiali, comprese quelle organizzate dai e per i magistrati, “anche perché – sottolinea – al di là delle difficoltà a venire a Roma, credo che il Giubileo sia un momento da vivere più sul piano personale che su quello del ruolo. La mia partecipazione al giubileo è stata personale, soprattutto tramite la visita alle basiliche giubilari”.
Una premessa… Il Giubileo permetteva a chi era stato costretto a vendere terra, casa, di rientrarne in possesso e di riavere tutte le sue proprietà. Parto da questo concetto per chiederle se c’è qualcosa che il mondo della giustizia ha perso e di cui lei, come operatore di giustizia e magistrato, vorrebbe tornasse in possesso.
Credo che al di là di quello che ha perso c’è una cosa su cui noi magistrati siamo in dovere nei confronti della giustizia e questo, forse, rappresenta un po’ un dato di perdita: il rapporto con e le risposte da dare ai singoli cittadini e lo dico con un po’ di rammarico. Spesso, anzi molto spesso, non riusciamo a dare la giusta soddisfazione alle istanze di giustizia della gente.
La nostra preoccupazione è spesso legata più a una logica diciamo iper-produttiva o di gestione delle emergenze. In questo modo però, rischiamo di perdere un po’ la visione personalistica delle vicende giudiziarie e questo, a mio avviso, ritengo sia un grande danno le cui conseguenze finiscono per ricadere e penalizzare i cittadini.
… cosa intende dire…
Intendo dire che dietro ogni vicenda giudiziaria c’è sempre una persona. Il grande rischio, in questo momento, è quello di mostrare una giustizia sempre pronta ad inseguire l’efficienza che alla fine però non riesce di fatto a raggiungere la gente; oppure perdere la capacità di guardare gli interessi di chi ha subito un’ingiustizia. Ma la delusione maggiore è constatare che spesso i cittadini nutrono sempre meno fiducia nel rivolgersi alla giustizia. Anzi, spesso si ha l’impressione che chi si rivolge alla giustizia non sempre ne abbia diritto e chi invece ne ha non sempre riesca ad avere piena soddisfazione.
Una richiesta di giustizialismo più che di giustizia?
Più che di giustizialismo, direi che assistiamo sempre più a utenti che si muovono con logiche strumentali. A volte la giustizia viene utilizzata per fini diversi. Dal voler ottenere ragione su una questione al semplice desiderio di voler dare fastidio, oppure con l’obiettivo di confondere le acque. Per questo,
credo che noi operatori di giustizia dovremmo ogni giorno interrogarci se siamo realmente riusciti a dare giustizia a chi ha chiesto il nostro intervento o se, nel nostro agire, ci siamo invece lasciati guidare dalla logica dei numeri e dell’efficienza perdendo di vista la meta e cioè, capire dove stanno effettivamente le ragioni in base alle quali siamo chiamati a intervenire.
Domande valide per tutti ma a maggior ragione, e questo mi sembra scontato, per chi vive e basa la sua professione su fondamenti cattolici.
Un “modus operandi” che va oltre la definizione di “cattolico”…
È chiaro che chi fa il magistrato è tenuto, ovviamente, a essere imparziale, anche rispetto alle proprie idee, ma la mia vera preoccupazione è quella di praticare o applicare una giustizia sempre più astratta. Una deriva questa in pieno contrasto col nostro sistema giudiziario che, al contrario, ha sempre messo al centro dell’attenzione l’uomo, il cittadino, grazie anche al contributo proveniente dalla nostra cultura, certamente cristiana e cattolica.
Questo giubileo è fondato sulla speranza, che non è l’ottimismo né il consueto e spesso irrilevante, andrà tutto bene. Come magistrato vede intorno a sé segni vivi di speranza?
Li vedo ogni giorno! Vedo testimonianze vive di speranza e di impegno, di singoli cittadini che hanno coraggio, di operatori delle forze dell’ordine che mettono grande impegno in ciò che fanno; vedo la testimonianza di tanti colleghi, la maggioranza, che nel silenzio lavorano e fino in fondo fanno proprio dovere. Quello che invece vedo sempre meno è l’idea collettiva legata alla speranza, l’idea cioè che il comportamento del singolo fa sempre più fatica ad inserirsi in un contesto più ampio, a entrare nell’ottica di un interesse generale.
Mi sembra quindi manchi soprattutto l’aspetto del “mettersi in gioco” per andare oltre sé stessi a favore di tutti.
E lei, personalmente, come vive questa speranza? La fede l’aiuta nel suo impegno pubblico?
Assolutamente sì! La cultura cattolica invita sempre a vedere con occhi diversi la realtà, invita a cercare l’uomo, anche dietro i fatti più efferati. In particolare, mi spinge ad andare oltre l’apparenza per individuare, nella persona, la capacità di poter superare anche le situazioni più gravi. È la logica della ri-educazione e della possibilità, aperta a tutti, di potersi rifare una vita. La speranza poi è anche l’auspicio di trovare singoli cittadini pronti a fare la loro parte. La speranza poi è soprattutto legata all’idea del perdono, della riabilitazione. A tal proposito, per quanto mi riguarda, credo che la cultura cattolica, sia un elemento di forza per verificare – e non dimenticare mai – che le vicende processuali, mi riferisco soprattutto a quelle penali, riguardano uomini e donne e portano sempre in dote momenti di grande sofferenza. Di questa sofferenza, noi magistrati, siamo chiamati a farci carico, fermo restando l’obbligo di affermare sempre e comunque i principi di giustizia.
Parla di una giustizia chiamata ad aprirsi perdono?
Io credo che il perdono richieda espiazione, ciò non toglie però, che nella visione cristiana, soprattutto cattolica, sia necessario e doveroso guardare all’uomo e credere che, anche se sbaglia, ce la può fare.
Dietro ogni vicenda giudiziaria c’è sempre una persona, che ha vissuto e vive in una situazione di grande sofferenza.
Questa premessa, fondamentale, ci consente di avere una visione non parziale ma totale, sia degli episodi criminosi che di chi li ha commessi. Credo quindi, come magistrato, che agire tenendo presente questo presupposto, in qualche misura ci aiuta e ci permette di vivere ogni giorno il nostro Giubileo”.
L’ottava beatitudine definisce “beati i perseguitati a causa della giustizia”. Lei, dal 2003 a seguito della scoperta di un attentato pianificato dal clan dei Casalesi, vive sotto scorta. Si è mai sentito, in questo senso, “perseguitato” a causa della giustizia? Come ha vissuto questa situazione?
Anzitutto ci tengo a dire che “perseguitato” è una parola che non credo possa essere applicata a un magistrato. Non mi sono mai sentito mai perseguitato né ritengo un magistrato possa essere di fatto perseguitato dalla giustizia. Certo, ci sono stati momenti in cui ho pensato stessi pagando un prezzo più o meno alto per quello che stavo facendo. L’affermazione della giustizia è una via irta, piena di difficoltà e se non si è disposti a pagare un minimo di prezzo vuol dire che il proprio dovere non lo si sta facendo fino in fondo. Aggiungo poi … non solo perseguitato, non mi sono mai sentito neanche abbandonato, anche quando alcune indagini ti facevano preoccupare, ti facevano avere paura. Le istituzioni sono sempre state vicine. E quando è stato necessario pagare non mi sono mai lamentato del prezzo. Ho ritenuto che fosse un fattore fisiologico e che facesse parte del pacchetto totale che spetta di diritto a chi decide di interpretare un ruolo di questo tipo.