Idee
La morte di Paolo Mendico, quattordicenne di Santi Cosma e Damiano, ha sconvolto non solo la comunità locale ma l’intero Paese, sollevando interrogativi profondi sulla responsabilità educativa degli adulti. Alla fiaccolata in suo ricordo ha partecipato anche l’arcivescovo di Gaeta, mons. Luigi Vari, che abbiamo raggiunto per riflettere sul senso di questa tragedia, sulla solitudine dei ragazzi e sul compito che attende la Chiesa, la scuola e le famiglie: “Da soli non ce la possiamo fare. Ma insieme possiamo asciugare lacrime e riaccendere speranza”.
Eccellenza, Lei ha partecipato alla fiaccolata in memoria di Paolo. Come ha visto reagire la comunità di Santi Cosma e Damiano?
La comunità è, comprensibilmente, molto disorientata. Trovarsi al centro di una tragedia così profonda è come essere travolti da una bufera. Ho visto persone davvero provate, alcuni genitori piangevano in silenzio. C’è un senso di smarrimento, di inadeguatezza perfino nel parlarne.
Ma sono rimasto colpito dalla partecipazione così numerosa alla fiaccolata: mi è sembrato un modo per dire “noi ci siamo”.
Come possiamo, con i nostri limiti, ma ci siamo. E questo ha un valore grande.
Ha sottolineato che non si tratta solo di un problema locale. In che senso?
Non è un episodio isolato. Forme di violenza, soprattutto verbale, ma non solo, sono sempre più diffuse. E spesso, purtroppo, sono tollerate o sottovalutate. Il senso della fiaccolata era anche questo: ritrovare le parole giuste, un linguaggio più umano, più costruttivo. Ma questo messaggio riguarda più noi adulti che i ragazzi. Siamo noi che dobbiamo imparare – o reimparare – a prenderci cura.
Molti hanno raccontato Paolo come un ragazzo sensibile, intelligente, ma riservato. È sempre più difficile cogliere i silenzi degli adolescenti?
Sì. Molti ragazzi oggi sono, direi, irraggiungibili. Ma spesso siamo noi adulti ad arrenderci per primi. E allora quei gesti silenziosi, quelle richieste non dette, restano invisibili. Paolo aveva i suoi interessi, le sue passioni. Ma, da quanto ho saputo, tra tutte le sue attività mancavano gli amici. Questa solitudine, purtroppo, è sempre più diffusa. Ragazzi chiusi in camera, davanti a uno schermo. Il Covid ha aggravato tutto questo. E il nostro modello sociale, oggi, rende perfino difficile socializzare.
Da dove si può ripartire?
Serve un cambio di sguardo. Noi adulti abbiamo nostalgia di quando si giocava in strada, ma i ragazzi di oggi vivono in un’altra realtà. Non va giudicata, va capita.
Dobbiamo farci girare il cuore e la testa, non rassegnarci. È questo, credo, il primo passo. Perché ogni ragazzo, per il solo fatto di esserci, è portatore di vita, di futuro
Quando li vedo impegnati, quando li ascolto, mi riempiono di speranza. Spesso sono loro i nostri maestri: integrano con naturalezza, accolgono senza giudicare.
Eppure, ci sono anche responsabilità tra i coetanei: chi deride, chi esclude, chi esercita prepotenza. Cosa dice a questi ragazzi?
I bulli ci sono sempre stati. Ma prima c’era una rete che proteggeva. Oggi, molti giovani non sanno più a chi rivolgersi. La scuola? Non sempre. La politica? Spesso assente. La Chiesa? A volte percepita distante. E allora il più forte impone la sua legge. Ma non dobbiamo fare discorsi nostalgici. Dobbiamo custodire quella rete, rafforzarla.
E qui la comunità cristiana ha una grande responsabilità. Le parrocchie fanno molto, ma da sole non bastano.
C’è bisogno di una corresponsabilità educativa che coinvolga famiglie, scuole, associazioni, oratori. È il famoso “villaggio che educa”. E oggi quel villaggio, purtroppo, non sempre c’è.
Ha incontrato i genitori di Paolo. Che cosa si è sentito di dire loro?
È stato un momento molto toccante. Ho parlato con il fratello, poi con il padre e la madre. C’è un dolore che non si può né spiegare né cancellare. Il suicidio di un figlio lascia una ferita che resta. Ma la speranza, la fede, la solidarietà possono aiutare a non restare soli dentro quel dolore. Possiamo solo accompagnare, asciugare lacrime. E farlo insieme. Alla fiaccolata, a un certo punto, tutta la piazza ha pregato un’Ave Maria per Paolo. È stato un momento di comunione profondissima. Alla madre ho detto: “Non possiamo fare molto, ma con te possiamo pregare”. E, davvero, da soli nessuno ce la può fare. Ma insieme – come comunità, come Chiesa, come uomini – possiamo aiutare a riaccendere la speranza.