Fatti
Il dott. Denis Mukwege è un medico, è un chirurgo, è uno dei chirurghi più bravi nella ricostruzione dell’apparato genitale femminile e da oltre vent’anni si occupa di curare, non solo dal punto di vista medico, le donne che sono vittime di stupro come arma di guerra. Ne ha curate più di 50.000. Fino a poco tempo fa, era recluso nel suo ospedale, dal quale non poteva uscire perché altrimenti sarebbe stato ucciso. Ha subito più di 10 attentati e nonostante questo continua in maniera molto determinata a sacrificare la sua vita per gli altri. Questo gli è valso Premio Sacharov per la libertà di pensiero nel 2014 e del Premio Nobel per la Pace nel 2018. Purtroppo da quando è ripreso il conflitto nel Kivu, quindi ormai molti mesi fa, non può più rientrare nel suo paese. Non può più rientrare nel suo paese perché ovviamente sia all’interno del suo paese e sia in Rwanda, l’M23, un esercito più o meno regolare o irregolare dai punti di vista, non vedrebbe l’ora di eliminarlo. Venendo qui ci raccontava di come quest’ultimo anno ha fatto il pellegrino, vagando per l’Europa e non solo, ed è stanco.
E quindi vorrebbe anche trovare una soluzione definitiva, anche perché poi la sua famiglia è lì, solo alcuni sono riusciti ad uscire dal Congo. Purtroppo di quello che succede in Kivu, sappiamo poco. Il silenzio assordante dei media viene rotto di tanto in tanto solo dall’Avvenire e da altri media cattolici, o dalla voce di qualche missionario. Per questo è difficile per noi comprendere pienamente il dramma che anche in questi giorni, in queste ore, vive il popolo congolese. Abbiamo letto che qualcuno si era anche illuso che Trump, con i suoi accordi di pace, potesse in qualche modo ripristinare un clima di pace, ma la sua è una pace commerciale: ha continuato, come hanno fatto altri, questa nuova forma di neocolonialismo depredando le risorse naturali, perché ovviamente il Congo è il paese più ricco al mondo per le risorse che possiede, ma è anche quello più impoverito e sfruttato al mondo dagli altri, e questa è la sua rovina. Non più tardi di due giorni fa sono morte altre 90 persone, trucidate, in una zona mineraria del nord Kivu. L’esercito congolese, lo stato congolese è inesistente. Quando i ruandesi hanno ripreso una parte importante del Kivu, quel poco di esercito mercenario ha pensato bene di fuggire, ma prima di fuggire ha commesso, a sua volta, delle atrocità, atrocità anche in fronte di persone di qualsiasi età. Quando l’abbiamo incontrato la prima volta ha raccontato della prima vittima che ha curato, che aveva 9 mesi. Quindi adesso il dott. Mukwege vorrebbe costruire una prospettiva che produca, intanto un’informazione corretta di quello che succede, perché le persone non sono informate, non solo non sono informate degli 8 milioni di morti negli ultimi vent’anni, di questo genocidio silenzioso in Kivu, ma non sono informati nemmeno di quello che accade quotidianamente e nemmeno di quello che accade al dott. Mukwege, che cerca di perorare la causa del suo Paese presso il Parlamento Europeo, all’ONU, ma ormai, come sapete, gli organismi internazionali hanno un potere molto limitato. L’Unione Africana è inerme, e quindi lui comunque insiste nel riproporre la necessità di promuovere una conferenza internazionale di pace in Italia, possibilmente a Roma, che coinvolga tutte le regioni dei Grandi Laghi e anche gli operatori economici, per fare in modo che le aziende che possono utilizzare le risorse, innanzitutto rispettino i diritti delle persone e anche l’ambiente, e poi ovviamente facciano in modo che le risorse naturali che loro sfruttano producano comunque benefici per la popolazione. Mukwege ha visitato la sede della Conferenza episcopale italiana, a Roma. L’occasione è stata propizia per rivolgergli qualche domada
26 milioni di congolesi hanno bisogno di aiuti alimentari, gli sfollati sono quasi 8 milioni. La situazione del Congo resta drammatica malgrado si siano spenti i riflettori dei media. Che notizie le arrivano dal suo Paese?
Consentitemi in primo luogo di ringraziarvi per il tempo che dedicate ad ascoltare le notizie della Repubblica Democratica del Congo. Sono molto riconoscente alla Conferenza Episcopale Italiana per ciò che continua a fare, nonostante una situazione molto difficile, una situazione di disperazione, in cui molte persone non vedono vie di uscita. 26 milioni di persone rischiano di morire di fame. Per di più i paesi europei e gli organismi internazionali hanno tagliato i fondi destinati agli aiuti, e dunque la nostra popolazione è davvero sull’orlo del baratro. L’ultima volta che sono andato in Congo ho provato davvero una grande tristezza. Passando in un campo dei rifugiati ho visto situazioni drammatiche, disumane. Mi ricordo che all’epoca la Conferenza episcopale di fronte alla situazione nei campi di Goma, alla sofferenza delle ragazze giovani che avevo incontrato, ci ha dato un sostegno economico. Un segno che ha avuto una grande importanza per molti per molti sfollati che erano nei campi. Purtroppo credo che oggi le cose non si siano migliorate. Sono in contatto con Goma dove si continua a uccidere tutti i giorni, diventa molto difficile mangiare, accedere alle cure mediche e quindi la situazione si aggrava ancor di più. Il 27 giugno scorso il Presidente Trump ha proclamato con clamore che era stato siglato un accordo di pace e molti hanno pensato che la guerra fosse finita eppure solo 4 giorni fa sono state uccise persone in una chiesa, sono state tagliate teste, eppure non si parla di questo. L’accordo di pace di Washington è stato firmato da Rwanda e Congo ma in effetti non è rispettato da nessuno. Inoltre sia l’accordo di pace di Washington sia le negoziazioni di Doha con l’M23 non coinvolgono gli altri movimenti, gli altri gruppi ribelli e gli altri Paesi che sono comunque presenti in zone del Congo, come l’Uganda a nord e il Burundi. Quindi l’accordo è servito solo per accedere alle risorse minerarie ma non è un accordo utile per la popolazione.
Le donne – alla cura e all’accompagnamento delle quali lei ha dedicato l’attività della sua fondazione e dell’ospedale Panzi a Bukavu – continuano ad essere vittime di violenza e di stupri. L’ospedale riesce a operare nonostante tutto?
Fortunatamente possiamo continuare a lavorare nell’ospedale. Si è ripreso ad andare nei villaggi per entrare in contatto con donne che sono state vittime di violenza. È sconcertate vedere che tante donne che erano già state vittime di violenza e che in passato avevano ricevuto cure nel nostro ospedale, sono di nuovo state violentate. Questo ha prodotto ferite profondissime sul piano psicologico e ora risulta molto complessa la presa in carico, perché quando si è vittima una volta è già molto grave ma quando si ripete per la seconda o terza volta anche aiutare diventa molto difficile. Purtroppo anche i suicidi – in genere molto lontani dalla mentalità locale – cominciano ad aumentare e questo è molto emblematico della drammaticità della situazione. Ed è comprensibile, perché una donna che è stata vittima di violenza è già psicologicamente distrutta, ma se la violenza si ripete è come se le venisse rubato ogni residuo spiraglio di speranza. I nostri operatori cercano di utilizzare terapie locali, la terapia della danza, la terapia del canto, la terapia dell’incontro, dell’auto mutuo aiuto, ma spesso non hanno effetti perché l’unica vera medicina è la fine di questa guerra che usa anche il corpo delle donne come strumento bellico. Com’è possibile mi chiedo che di questo non se ne parli? In tutte le riunioni che si fanno a Washington si discute su chi gestirà la miniera tale, chi prenderà l’altra e non di questa sofferenza enorme che si consuma in particolare su donne e bambine. Torno da una riunione a Londra dove abbiamo discusso a lungo sulla chirurgia possibile per le bambine violentate, che spesso subiscono danni enormi con la lacerazione di vagina, del retto e di organi interni e non potranno più avere una vita normale. Siamo a un tale livello di barbarie disumana che dobbiamo chiederci dove sia finita l’empatia, la compassione. Anche la politica a livello globale sembra aver perso la capacità di empatia. Oggi più che mai credo che l’unico baluardo sia rimasta la Chiesa.
In proposito lunedì 25 agosto, la Conferenza episcopale nazionale del Congo (Cenco) con altri organismi che riuniscono diverse chiese e gruppi religiosi, ha presentato a Kinshasa una road map, sottoposta poi al presidente Tshisekedi. A suo avviso questa azione sinergica e inclusiva può aprire finalmente qualche spiraglio per una pace duratura?
È un’iniziativa molto buona ma ad oggi è in stallo perché da un lato il Presidente ha paura di perdere il potere e quindi ne rallenta l’iter, dall’altro lato i politici dell’opposizione pensano che è un’occasione di tornare a fare affari. Una situazione che fa molto male al cuore perché è come se si stesse discutendo solo di questioni di potere, senza considerare la sofferenza della popolazione. Proprio per questo però occorre insistere, perché è importante che si levi ogni voce che permette di mettere gli antagonisti intorno ad un tavolo e di poter parlare su come porre fine alla sofferenza della popolazione e penso che solo la Chiesa possa farlo per il momento. Ecco perché avevo proposto una conferenza internazionale qui a Roma, perché la Chiesa è presente ovunque, è informata e raccoglie le voci di dolore da ogni Paese, anche quelle del Congo, quindi può avere una grande influenza. Ho proposto una conferenza internazionale soprattutto perché la guerra riguarda più Paesi e più attori: c’è il Rwanda, c’è l’Uganda c’è il Burundi, ci sono tutti i gruppi armati congolesi ma anche i gruppi armati stranieri, poi ci sono anche le compagnie estrattive che vogliono accedere alle risorse minerarie, specialmente al tantalio e al coltan che servono per fare le apparecchiature elettroniche. Per molto tempo l’estrazione del tantalio è stata lasciata nelle mani dei cinesi e gli USA lo acquistavano dalla Cina, ma con la politica dei dazi i cinesi hanno minacciato di bloccare queste esportazioni e questo rischia di bloccare tutta la filiera produttiva. Ecco perché è importante far sedere attorno a un tavolo i Paesi e i gruppi armati coinvolti nella guerra, il governo congolese ma anche le imprese che si interessano dell’estrazione delle ricchezze minerarie, tutti gli attori economici che poi sono la filiera che fa profitto se vogliamo il primo anello di una catena che poi arriva fino a noi.
La rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite, e capo della missione Onu Monusco, Bintou Keita, parlando del processo di ricerca della pace e di ricostruzione, ha ribadito che: “È essenziale che questo processo sia guidato dagli stessi congolesi, con il continuo sostegno dei loro partner internazionali”. Secondo lei può essere una strada percorribile?
Personalmente penso che sia un’ottica sbagliata, perché non si può dire che i congolesi risolveranno il problema mentre c’è un’armata internazionale che è supportata anche da altri Paesi, da forze esterne e da compagnie internazionali. Credo dunque che sia un linguaggio diplomatico ma in realtà non porterà a nessun risultato. Io non sono un diplomatico ma vedo la sofferenza della gente e penso che l’unica soluzione sia il dialogo tra tutti gli attori, anche con le compagnie minerarie per regolamentare l’accesso e lo sfruttamento delle risorse senza continuare a usare la violenza. Purtroppo gli interessi economici continuano a prevalere sulla vita umana e solo con una conferenza internazionale si potrà sperare di trovare un percorso di uscita e delle condizioni accettabili per tutti. Ci sono risoluzioni delle Nazioni Unite che chiedono la cessazione del conflitto ma nessuno le applica. Quindi ciò che Bintu Keita ha detto, credo sia un modo molto diplomatico per affrontare la questione, ma non è realistico. Dopo gli accordi di Washington il Presidente Trump ha dichiarato di aver risolto un’annosa questione, addirittura di meritare il Nobel, ma in realtà in Congo la gente continua a morire ogni giorno.
Per il suo incessante attivismo Lei è stato vittima di aggressioni, riceve ripetute minacce e ha dovuto lasciare il suo Paese allontanandosi anche dalla sua famiglia. Che cosa le dà il coraggio per continuare con forza e determinazione a levare la sua voce per porre fine alle violenze in Congo?
Io sono stato accanto a persone che soffrono, che hanno conosciuto atrocità indescrivibili. In questi giorni sono stato interpellato per un film che stanno girando sulla mia attività, ho discusso e ho detto che non mi piace che se ne faccia una fiction perché quello che ho vissuto e vivo è realtà, anche se spesso dico “Signore aiutami, fa che non sia vero”. Tornando alla domanda penso che quando vedo donne violentate che dopo essere state aiutate e affiancate da noi diventano infermiere, anestesiste, medici, avvocati, con l’unico obiettivo di diminuire la sofferenza degli altri, questo diventa per me una motivazione enorme. Questo conferma la mia convinzione che proprio nelle donne possiamo trovare risorse e capacità per migliorare la situazione del nostro mondo oggi. Un mondo dove c’è una perdita dell’empatia, dove uccidere, bombardare, contare i morti diventa assolutamente normale. Ecco, io penso che ho imparato molto da queste donne congolesi, dalla loro capacità di continuare ad amare, nonostante tutto, ad avere compassione dopo aver sofferto. Questo mi dà la forza di andare avanti, di vivere nell’incertezza totale. Più volte hanno cercato di uccidermi ma finora Dio mi ha protetto. Per il momento viaggio molto, da gennaio fino ad oggi mi sposto da un luogo all’altro con la mia valigia di 23 Kg , ma ho paura, non ho più scorta e protezione speciale, quindi cerco di fare molta attenzione. La mia famiglia è lì e anche questo mi preoccupa. È difficile, è tutto tremendamente difficile. Anche continuare a fornire cure e a vedere donne ferite e violentate. Le statistiche parlano di 123 mila donne violentate ogni anno, una ogni 4 minuti. Ma ciò che più mi preoccupa è il numero crescente di bambine violentate che secondo un rapporto Unicef sarebbero il il 35-40% del totale. Quando bambine di 12, 13, 14 anni subiscono violenza e poi rimangono incinte spesso abbandonano questi figli. Dei 3.000 incontri che facciamo, quasi 1.000, più di 1.000 sono con bambine. E ogni volta mi si stringe il cuore. È un trauma che diventa transgenerazionale. Comunque cerchiamo di aiutare anche queste bambine, abbiamo molti psicologi che stanno accanto a loro e a volte riescono a convincerle a non abbandonare i loro figli. Se abbiamo l’opportunità di incontrare queste bambine prima che partoriscano le inseriamo in un percorso di accompagnamento, parliamo con loro della gravidanza, del bambino che avranno, della necessità di un bambino di avere una madre. Penso che i nostri psicologi lo fanno molto bene perché se venite nel nostro ospedale a Panzi troverete bambini che si chiamano “Benvenuto”, che si chiamano “Grazie a Dio”: le madri si rendono conto che sono vittime ma che i bambini non hanno colpe e non possono essere abbandonati. E questo è un lavoro che stiamo cercando di migliorare. Un lavoro che richiederebbe però un potenziamento del nostro ospedale e questo è più difficile. Abbiamo circa 120 posti ma sono molto pochi e ci sono alcuni casi che avrebbero bisogno di essere accompagnati per mesi, anche per un anno, ma non possiamo fare di più.
Anche il presidio a Goma continua a funzionare?
L’ospedale a Goma è stato attaccato, ma anche lì si continua a lavorare. A Bukavu invece l’ospedale Panzi non è stato mai attaccato.
Lei insieme ad altri premi Nobel partecipa anche al Meeting mondiale sulla Fraternità Umana che si tiene in Vaticano per continuare a discutere e confrontarsi sui temi della fraternità. Incontrerà dunque Papa Leone XIV?
Sì. Il Papa conosce il Congo, è stato in Congo, spero possa essere una voce autorevole per poter arrivare alla pace in Congo. Sono convinto che quella della Chiesa è l’unica voce che ancora può essere ascoltata, può fare appello ai potenti perché facciano qualcosa.
Vuole aggiungere qualcosa?
Noi siamo davanti a una sofferenza inimmaginabile che trascende ogni limite. Cosa mi consigliate? Cos’altro possiamo fare? L’ultimo rapporto pubblicato venerdì 5 settembre dall’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) elenca una serie di crimini di guerra e contro l’umanità commessi nella Repubblica Democratica del Congo: dalla tortura fisica e psicologica alla detenzione e alla sparizione forzata, fino alla schiavitù sessuale e allo stupro. Noi che siamo vicini a questa sofferenza li constatiamo ogni giorno. La Chiesa è in prima linea, accanto a chi ha fame, è malato, soffre e muore. Quello che è inaccettabile è che l’interesse materiale possa disumanizzare qualcuno a questo punto. Ma cosa possiamo fare? Possiamo solo dare dei piccoli segni, con la speranza che diventino un seme. Lavorare per la riconciliazione e sperare che crescano le voci di pace. Purtroppo oggi in Congo le persone hanno paura anche di rivolgersi alla Chiesa, perché anche questa è sempre più spesso attaccata, vengono uccisi fedeli e anche sacerdoti. Non si hanno più punti di riferimento. Attaccare la Chiesa vuol dire distruggere anche l’ultima speranza e quando un popolo non ha più speranza si può facilmente sottomettere e manipolare. Quando si distruggono i valori, le relazioni, la disperazione totale sembra prevalere ma dobbiamo continuare a fare la nostra parte, nonostante tutto. Specialmente in questo periodo in cui si tagliano i fondi per gli aiuti internazionali per aumentare i budget per le spese militari, la vostra vicinanza e il vostro sostegno come Conferenza episcopale italiana resta vitale per non disperdere tutto il lavoro finora, grazie anche al vostro aiuto.