Secondo l’enciclopedia Treccani il termine apòlide identifica una «persona che, avendo perduto la cittadinanza di origine e non avendone assunta alcun’altra, non è cittadino di alcuno Stato».
L’etimologia della parola, invece, consegna al nostro immaginario una rappresentazione più fisica di ciò che potrebbe succedere se venissimo privati della cittadinanza: apolide, dal greco a-polis, letteralmente “senza città”. Soffermiamoci un attimo su questo. Pensatevi per un momento senza città, cittadina o paese. Non esistete in alcun tipo di registro amministrativo, non vi è assegnata residenza o assistenza ospedaliera, non potete andare a scuola, non potete recarvi al lavoro. In una parola non avete radici se non i legami con le persone che conoscete direttamente. Per sopravvivere l’unica maniera è entrare involontariamente in una zona oscura fatta di illegalità, personaggi ambigui se non addirittura criminali che stabiliscono ciò che potete o non potete fare, se essere o meno pagati, oppure entrare, ad esempio, in un campo profughi gestito da organizzazioni internazionali che vi aiuteranno solo durante l’emergenza, in attesa di un futuro di cui nessuno può dare certezza. Non si può, ad esempio, affittare una casa e lavorare se non in nero, iscriversi all’università.
Si stima che nel mondo vi siano circa 10 milioni di persone senza Stato ma, proprio per la mancanza di anagrafi o registri, si suppone che il numero sia molto più alto. Per la natura stessa del fenomeno non si potrà mai avere una cifra esatta.
Diventare apolidi non è una scelta, non è frutto di volontà individuale. È un’eredità che non si può rifiutare lasciata da altri uomini o da fatti esterni come guerre o discriminazioni.
A Marjayoun, fra montagne e vallate che circondano il sud del Libano, vivono circa 5 mila rifugiati siriani, che dall’inizio della guerra in Siria nel marzo del 2011, hanno abbandonato le loro case distrutte o occupate per cercare riparo altrove. Siamo lungo il confine che separa il territorio libanese da Israele e Siria. Molte famiglie vivono in 74 campi informali, piccoli agglomerati costituiti da tende. I nuclei famigliari sono spesso numerosi, con molti figli a carico la cui maggior parte è nata in Libano. E per il fatto di essere nati in Libano questi bambini non hanno ottenuto né la cittadinanza dal proprio Paese di origine né da quello ospitante. Legalmente sono figli di nessuno.
Avsi, ong italiana autorizzata a operare nel territorio, prende a cuore, per quanto possibile, la situazione di queste famiglie, aiutandole a sviluppare progetti agricoli, cercando di limitare il lavoro nero e fornendo una prima istruzione ai bambini in scuole improvvisate nelle tende costruite con le coperture dei camion, dopo il loro lavoro nei campi. L’esempio di Marjayoun, come di molte altre decine nel mondo, rappresenta una delle maggiori cause della condizione di apolidia: lo stato di profugo a seguito di guerra o occupazione militare.
Un altro fattore che favorisce la condizione di apolide è quando si è parte di un gruppo sociale a cui è negata la cittadinanza sulla base della discriminazione etnica o razziale. Nel Congo francese, la comunità di “autoctoni”, termine istituzionale che identifica il popolo dei pigmei (parola dai contorni razzisti in quel Paese), è vittima di pesante persecuzione. Gli appartenenti a quella comunità vengono continuamente insultati per strada (specialmente le donne) e per secoli sono stati reputati essere inferiori dalla comunità “Bantu”, che li ha ridotti in schiavitù. I pigmei sono un popolo ormai in via di estinzione. Presenti nell’Africa centrale contano circa 400 mila unità e parte di loro non possiede cittadinanza.
Non essere cittadini di alcuno Stato avviene anche quando, per motivi burocratici, il Paese a cui si apparteneva viene dissolto, dando vita a nuove entità nazionali. Gli esempi più lampanti degli ultimi decenni sono i casi dell’ex Urss e dell’ex Jugoslavia. Dopo la caduta del muro di Berlino il blocco sovietico si dissolse tra il gennaio del 1990 e il dicembre del 1991. Ne nacque un limbo in cui si affermò l’indipendenza delle Repubbliche sovietiche e baltiche e la restaurazione di nuove amministrazioni statali e locali. I cittadini rimasero per alcuni mesi senza cittadinanza, non sapendo quale sarebbe stata la loro appartenenza.
Di questo periodo è illuminante il libro di Tiziano Terzani Buonanotte, signor Lenin, nel quale lo scrittore narra del viaggio da lui intrapreso dalla Siberia lungo le diverse repubbliche post-sovietiche nascenti descrivendone i territori frantumati, il vuoto amministrativo e lo spaesamento della popolazione.
La lunga coda di quell’assestamento geopolitico toccò, nei primi anni ’90, anche l’ex Jugoslavia, con una guerra e massacri sanguinosi che portarono alla nascita degli attuali stati di Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Serbia, Montenegro, Kosovo e Macedonia del Nord. Tutti i cittadini di quella che fu la Jugoslavia di Tito vissero nell’attesa di essere riconosciuti cittadini dei nuovi stati nascenti.
Attualmente, secondo l’Unhcr, sono dieci i Paesi con il più alto numero di apolidi: Costa d’Avorio, Repubblica Domenicana, Iraq, Kuwait, Myanmar, Russia, Siria, Thailandia, Zimbabwe.
Le altre motivazioni per le quali si consegue lo stato di apolide possono essere se si è figli di apolidi o se si è impossibilitati a ereditare la cittadinanza dei genitori, o per incongruenze e lacune nelle leggi sulla cittadinanza dei diversi Stati.
In Italia, secondo i dati delle organizzazioni della società civile, il numero oscilla tra i 3 mila e i 15 mila e molte di queste persone appartengono a quello che per antonomasia è il “popolo senza stato”, ovvero i Rom.
Nel nostro Paese l’accertamento dello stato di apolidia può essere ottenuto in due modi: con procedimento amministrativo o con procedimento giurisdizionale.
Il procedimento amministrativo prevede la richiesta al ministero dell’Interno di essere riconosciuti come apolidi, allegando l’atto di nascita, il certificato di residenza e ogni documento idoneo a dimostrare lo stato di apolide (es. attestazione rilasciata dall’autorità consolare del Paese di origine o di ultima residenza da cui risulti che l’interessato non sia in possesso di quella cittadinanza). Già dalla richiesta si comprende la difficoltà di recepire tali documenti soprattutto se si proviene da paesi in cui è in atto un’invasione o una guerra civile oppure dai quali si scappa a causa delle condizioni di povertà o di discriminazione. Qualora si dovessero avere tutti i documenti certi la durata media per il riconoscimento è di circa due anni e nel caso in cui venisse rigettata è possibile rivolgersi direttamente al giudice.
I due principali strumenti normativi internazionali in materia di apolidia sono la Convenzione relativa allo status delle persone apolidi del 1954 di New York e la Convenzione sulla riduzione dell’apolidia del 1961 che prevede che gli Stati parte garantiscano l’acquisizione della cittadinanza in modo automatico al momento della nascita. Le Convenzioni sono la base per la protezione internazionale degli apolidi.
In Italia è divenuta esecutiva nel 1962 con la legge 306 e il 10 settembre del 2015 il Parlamento italiano ha approvato in via definitiva la legge di adesione alla Convenzione del 1961. Gli apolidi riconosciuti attraverso una procedura formale hanno diritto a un permesso di soggiorno, all’istruzione, alla sanità e alla pensione così come all’accesso all’impiego e al rilascio di un titolo di viaggio per apolidi.
Per gli apolidi non riconosciuti invece, non avendo un permesso di soggiorno, sono garantiti solo il diritto all’assistenza sanitaria e, fino ai 18 anni, quello all’istruzione. Acquisito lo stato di maggiorenne da apolide non riconosciuto non è possibile iscriversi all’università, affittare una casa e lavorare, se non in nero.