Fatti
La ricostruzione della Striscia di Gaza rappresenta “una delle operazioni post-conflitto più complesse del XXI secolo. Dopo due anni di guerra e devastazione, il territorio affronta un piano di ricostruzione stimato in 80 miliardi di dollari – pari a circa 46.000 dollari per abitante – che intreccia dimensioni ingegneristiche, politiche e di sicurezza. Con il 78% del patrimonio edilizio distrutto o danneggiato e oltre 40 milioni di tonnellate di macerie, il processo di ricostruzione si configura come un’impresa sistemica in cui il debris management (gestione dei detriti, ndr.) diviene la variabile critica che condiziona tempi, costi e sicurezza operativa”. È quanto afferma Claudio Bertolotti, direttore di Start Insight, think tank che si occupa di temi geopolitici, con particolare riguardo all’area mediterranea, al mondo arabo e islamico. In un report pubblicato oggi sul sito https://www.startinsight.eu/ e intitolato “Ricostruire Gaza: costi, attori e implicazioni strategiche. 80 miliardi e dieci anni di tempo”, Bertolotti affronta la ricostruzione della Striscia evidenziandone “l’intreccio tra governance economica e influenza politica” e sottolineando l’importanza della sicurezza, quale “fattore abilitante e moltiplicatore di resilienza: senza corridoi protetti e standard di trasparenza – rimarca l’analista – la ricostruzione rischia di rimanere un esercizio contabile, incapace di trasformarsi in capacità territoriale”.
Il bilancio della distruzione. Bertolotti riporta dati tratti dall’analisi satellitare di Unosat, Operazione Satellitare delle Nazioni Unite, consolidata da Ocha, l’Ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite, secondo la quale, a inizio luglio 2025 risultano distrutte o danneggiate 192.812 strutture nella Striscia di Gaza: il 78% del patrimonio edilizio complessivo. Nel dettaglio: 102.067 edifici distrutti, 17.421 gravemente danneggiati, 41.895 moderatamente danneggiati e 31.429 con danni potenziali. Una stima, ricorda l’analista, destinata a crescere “con l’aggiornamento delle acquisizioni e della possibilità di effettuare sopralluoghi, ad oggi ancora molto limitata”. Le rilevazioni satellitari Unosat sulla rete viaria segnalano, inoltre, migliaia di chilometri di strade distrutte o gravemente compromesse (3.479 chilometri) con picchi nei nodi urbani e logistici a maggiore densità, con 442 km distrutti a Khan Yunis e 363 km nell’area di Gaza City. Qui, il tessuto urbano compatto, la sovrapposizione tra tessuto residenziale e infrastrutture critiche, e l’uso militare del sottosuolo da parte di Hamas hanno moltiplicato la vulnerabilità. Questi fattori, viene spiegato nel report, condizionano tanto l’accesso umanitario quanto la futura cantierizzazione dei lavori di rimozione macerie e ricostruzione. In assenza di corridoi terrestri sicuri e di capacità meccaniche adeguate, sostiene Bertolotti, la finestra temporale per la gestione delle macerie (debris management) si estende oltre il decennio stimato dalle principali valutazioni internazionali. Per le priorità di intervento si segnalano “la stabilizzazione delle macerie e safety clearance (messa in sicurezza, ndr.); ripristino dei corridoi stradali primari per la logistica umanitaria; riabilitazione dei servizi essenziali (acqua-energia-sanità) in prossimità degli insediamenti di sfollati. “Ogni ritardo nella rimozione delle macerie e nel ripristino delle arterie principali amplifica le difficoltà delle comunità e deprime la resilienza sociale, prolungando la dipendenza dagli aiuti e alzando i costi futuri di ricostruzione” avverte il direttore di Start Insight.
Bilancio umano e 100mila nascite. Il bilancio umano, spiega l’analista, indica alla metà di settembre 2025, “65.062 morti (di cui circa la metà appartenenti o affiliati a Hamas) e 165.697 feriti; valori ripresi da più testate internazionali e aggiornamenti d’agenzia, pur senza una reale verifica”. Un numero che “sul piano meramente statistico è tra i più bassi di tutti i conflitti urbani degli ultimi decenni, comparati ad analoghi casi come Mosul e Falluja in Iraq e Grozny in Cecenia”. “La forbice d’incertezza resta ampia: una quota dei decessi – riferisce Bertolotti – non è stata identificata, parte delle vittime è presumibilmente ancora sotto le macerie e alcuni decessi per cause indirette potrebbero essere sottostimati”. Pur in un contesto di guerra, sarebbero 100.000 le nascite riportate durante il periodo in esame.
I costi e i tempi della ricostruzione. Questi vengono individuati, dall’analista, in più di “dieci anni e 80 miliardi”, esito della stima congiunta di Banca Mondiale e Undp, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo. La cifra “non è solo un mero dato numerico: è la misura di uno sforzo sistemico. All’interno di quella cifra si collocano tre livelli di intervento che si sostengono a vicenda: messa in sicurezza e rimozione delle macerie, calcolate in 40 milioni di tonnellate e che richiederebbero oltre 5 anni di lavoro in condizioni ideali; ripristino funzionale delle reti vitali (acqua, elettricità, sanità, viabilità primaria); ricostruzione del tessuto residenziale, scolastico e produttivo. Senza il primo livello, gli altri due non partono; senza il secondo, il terzo non è sostenibile nel tempo”. Vanno, poi, considerati, secondo Bertolotti, anche i “7 miliardi indicati per il ripristino dei servizi militari e di sicurezza” che “vanno letti come componente abilitante. Sicurezza del cantiere, scorta ai convogli, bonifica profonda Eod/Uxo di eventuali ordigni bellici non detonati o residuati bellici presenti in un’area specifica, controllo degli accessi, protezione di ospedali e snodi logistici sono prerequisiti; senza di essi, assicurazioni e appalti non partono, i premi di rischio lievitano e la filiera resta incompleta”. In tutti i teatri post-bellici, spiega il direttore di start Insight, “la sicurezza è un moltiplicatore: abbassa i costi indiretti, accelera i flussi e riduce la mortalità evitabile”. Sintetizzando, “gli 80 miliardi descrivono la dimensione di un progetto di ricostruzione che è insieme ingegneristico e politico. Senza un corridoio di sicurezza stabile, la bonifica delle oltre 40 milioni di tonnellate di macerie resterà il collo di bottiglia che congela il resto. L’allocazione di 7 miliardi alla funzione sicurezza non sottrae risorse: le abilita, perché consente a cantieri, assicurazioni e ‘supply chain’ (catena di fornitura) di operare con continuità e a costi prevedibili”. La rotta indicata nel report di Start Insight è quella di “ripartire dalle arterie vitali, dai distretti idrici e dalle micro-reti elettriche. È la condizione per evitare che la ricostruzione resti ostaggio della geografia del danno” senza restare nell’emergenza.
Gli attori economici. Tra le imprese potenzialmente coinvolte nella ricostruzione, annota Bertolotti, figurano grandi gruppi internazionali, tra cui: Orascom e Arab Contractors (Egitto), CCC (Grecia), Organi, Limak e Tekfen (Turchia), Webuild, Cementir e Buzzi (Italia), Vinci, Bouygues, Saint-Gobain, Holcim, Heidelberg Materials, Vicat, Imerys, Veolia, Suez, EDF (Francia e Germania), e Siemens Energy, RWE (Germania). Nel settore energetico e delle risorse naturali sono coinvolte compagnie come Amar, Leviathan, Karish e Newmed (Israele), Chevron (USA), Energean (Regno Unito), Eni (Italia), British Petroleum (Regno Unito), Socar (Azerbaijan), Dana Petroleum (Scozia) e Ratio Energies (Israele).
Considerazioni strategiche e ruolo dell’Italia. La ricostruzione di Gaza non può essere ovviamente letta solo in termini economici; al contrario, ribadisce Bertolotti, “rappresenta un banco di prova per la governance internazionale e per la cooperazione tra istituzioni multilaterali e Stati. Il coinvolgimento di attori privati, la competizione per i contratti e la presenza di fondi congiunti UE–World Bank indicano una dimensione geopolitica emergente in cui la ricostruzione diviene strumento di influenza”. In questo quadro, secondo l’analista, “l’Italia potrebbe giocare un ruolo significativo attraverso le proprie imprese e l’esperienza maturata nei contesti di post-conflitto, in particolare con le proprie capacità militare (in particolare le capacità Stability & Reconstruction, e Security Force Assistance) e di cooperazione internazionale, rafforzando la propria presenza strategica nel Mediterraneo allargato”.