Due scene per un conflitto. La prima è liberatoria, commovente, dà l’idea della pienezza di un amore,
è quella che abbiamo visto lunedì scorso su tutti gli schermi del mondo: la madre simbolo della lotta per la liberazione degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas, Einav Zangauker, che stringe a sé il figlio Matan appena tornato dopo essere stato nelle mani dei suoi aguzzini per oltre due anni.
La seconda è devastante: una vertigine di dolore; è quella che il Tg1 ha mandato in onda ormai un mese fa, il 19 settembre. Un bambino esausto di forse otto o nove anni palestinese fugge in lacrime da Gaza city dopo l’ennesimo bombardamento nel quale ha perso i genitori. Piange, appare disorientato, a un orecchio straniero sembra chiamare la mamma. Sulle sue spalle la sorellina di forse un anno. Qualche giorno dopo, la notizia dell’accoglienza dei due fratellini in Egitto, lontano dall’orrore della guerra.
Si tratta di due immagini simboliche, scelte tra le molte a cui abbiamo assistito in questi due anni di feroce combattimento tra lo stato di Israele e i miliziani di Hamas, dopo il tremendo 7 ottobre 2023. Non ci sono significati politici da ricercare in quegli spezzoni di video, c’è tuttavia il fattore umano, oseremmo dire quotidiano, con cui fare per forza i conti: la portata storica dell’accordo di pace che si è celebrata pochi giorni fa a Sharm el-Sheikh deve per forza decantare nel crogiolo della disumanità a cui questa guerra – come tutte le guerre – sottopone le sue vittime principali: i civili, la popolazione inerme, in particolare i piccoli.
Alla fine la diplomazia ha giocato il suo ruolo, le armi al momento sembrano tacere, e tuttavia quello raggiunto più che un accordo di pace ha tutta l’aria di essere un cessate il fuoco.
Oggi in Palestina una vera pace non è possibile – per lacune del piano Trump, certo – ma ancora prima perché dal 1948 (nascita di Israele) a questa parte in quel lembo di terra si nasce e si vive in guerra e quello che si è appena spento non è che uno dei molti focolai di odio e violenza scoppiati in questi decenni. Finché ci saranno giovani vite che per anni saranno sequestrate da terroristi (sempre che siano sopravvissute agli attentati); finché i bambini perderanno i genitori sotto le bombe e dovranno portare in salvo i fratellini più piccoli, l’idea di una vera riconciliazione rimarrà tratteggiata in un lontano orizzonte.
Le celebrazioni sul Mar Rosso – con oltre un’ora di discorso di Trump una dose massiccia di autocelebrazione – cozzano contro il dolore profondo di queste ferite. Uno stridore al quale non possiamo rimanere indifferenti.
Ora quella terra martoriata si incammina quindi su un percorso che promette una svolta storica, che tuttavia è agevole come la lama di un rasoio. Hamas non ha consegnato tutte le armi, come avrebbe dovuto secondo l’accordo, e ha cominciato a fare piazza pulita dei palestinesi che non si sono fatti assoggettare, in questi mesi in cui l’organizzazione politico-terroristica ha esposto la popolazione alla furia dell’esercito israeliano. La prova del nove sull’accordo sta proprio qui: se le armi che non sono state consegnate verranno anche utilizzate, gli israeliani potrebbero tornare sui loro passi, esattamente come avvenne durante la seconda intifada. I venti punti del piano Trump, per molti aspetti fumosi, possono quindi saltare in aria tutti insieme. Se reggeranno ai sabotatori, di cui il Medioriente è pieno, dovranno superare altre prove importanti, come la creazione dell’amministrazione tecnica composta da ipotetici tecnocrati; del “Board of peace” guidato dallo stesso Trump e dal già impallinato Tony Blair; dell’Autorità transitoria internazionale di Gaza con sede in Egitto sotto l’egida Onu.
Di fatto si tratta di creare quello Stato che già i trattati del 1948 prevedevano. Vedremo se sarà la volta buona.