Chiesa | Diocesi
L’anno pastorale che ci attende sarà dedicato alla “sensibilizzazione” rispetto ai ministeri battesimali, che prenderanno l’avvio intorno al 2027. Non si tratta di un’iniziativa per “addetti ai lavori”, ma di un’opportunità per riconoscere come ognuno sia chiamato a servire la Chiesa. In questa prospettiva si inseriscono quattro proposte per valorizzare le nostre liturgie: la cura più consapevole del fonte battesimale, la celebrazione comunitaria dei battesimi, la valorizzazione di alcune domeniche, la riscoperta del senso ecclesiale della processione d’ingresso nell’Eucaristia.
L’introito è tutt’altro che una solenne parata démodé. È un segno di grande rilievo teologico e un’occasione perché la messa prenda l’avvio in un clima di fraternità. Immediatamente in esso ci è data la manifestazione dei ministeri battesimali e ordinati. Ecco i ministranti o gli accoliti nella loro veste candida, che rimanda proprio all’illuminazione ricevuta nel battesimo, dove gli occhi del cristiano si sono aperti alla luce della verità. E poi il diacono, il presbitero, la Croce, l’Evangeliario, spada che taglia l’assemblea. Tutto diventa immagine della sequela, del camminare dietro al Signore, ma di più: delle mistiche nozze tra lo Sposo divino e la sua Sposa, la Chiesa. Il Risorto irrompe, attraversa il corpo mistico, lo inabita, lo trapassa con la sua Croce e la sua Parola, come lui stesso è trapassato. L’introito ha il dinamismo dello scoccare di una freccia, è carico della forza antropologica dell’andare verso una meta. Ci dice che siamo convocati, vigilanti, perché il Signore ci raggiunga come quando è apparso “a porte chiuse” nel cenacolo: «La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: Pace a voi!». (cfr. Gv 20,19).
È necessario che il ritmo della processione sia pacato e la forma risulti composta e simmetrica, senza ostentazione e autocompiacimento. L’Ordinamento generale del Messale romano, al numero 20, scrive: «Quando il popolo è radunato, il sacerdote e i ministri, rivestiti delle vesti sacre, si avviano all’altare, in quest’ordine: il turiferario con il turibolo fumigante, se si usa l’incenso; i ministri che portano i ceri accesi e, in mezzo a loro, l’accolito o un altro ministro con la croce; gli accoliti e gli altri ministri; il lettore, che può portare l’Evangeliario un po’ elevato, ma non il Lezionario; il sacerdote che celebra la messa» (n. 120 O.G.M.R.). Nel caso in cui sia presente anche il diacono, il Messale precisa che egli «precede il sacerdote nella processione verso l’altare portando l’Evangeliario un po’ elevato; altrimenti incede al suo fianco» (n. 172).
La processione andrebbe preparata in un luogo idoneo, come la sacrestia, ma non si deve poi imboccare una scorciatoia con cui raggiungere immediatamente l’altare. È importante che i ministri ordinati passino in mezzo al popolo riunito, facendo percepire la loro prossimità. Ben diversa è l’impressione che dà un parroco che appare sull’altare quasi fosse un attore che sale sul palcoscenico da dietro le quinte, o che invece attraversa la navata e saluta i parrocchiani, così come fanno il papa stesso e i vescovi. Questo passaggio ha qualcosa di molto umano; è il momento in cui ci vediamo in faccia, ci riconosciamo, sappiamo chi c’è, ci accorgiamo che manca quella persona, perché ci vogliamo bene, siamo l’assemblea del Risorto, la sua Chiesa, il suo popolo.
Piuttosto che la parata o il corteo, l’introito ricorda l’ingresso di Gesù nei villaggi, nelle sinagoghe, nelle case, quando guariva i malati, convertiva i pagani, i peccatori, si intratteneva a conversare con i piccoli, gli ultimi. Il clima è quello della prossimità, che tante volte i Vangeli hanno rappresentato. La liturgia dovrebbe allora dare all’introito un geniale equilibrio tra la solennità, l’importanza del gesto, l’autorevolezza, e la semplice, quasi dimessa familiarità del curvarsi del Signore sulle nostre ferite e debolezze. Il Verbo incarnato colma la distanza tra lui e noi; unisce a sè la sua Sposa, la Chiesa, con un vincolo che non è valoriale, ma carnale. Ci invita a mangiare il suo corpo e a bere il suo sangue perché possiamo divenire «concorporei e consanguinei» (cfr. Ef 3,6) «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4). L’eschaton, il compimento, è allora già qui: al suono del campanello, è Pasqua.