Stiamo convivendo con guerre che nonostante la loro gravità hanno assuefatto una ampia fascia di opinione pubblica. Al punto in cui siamo giunti ogni ragionevole limite è stato superato: quotidianamente vengono uccisi civili e i bambini sono le prime vittime dei bombardamenti e delle distruzioni. Specialmente dopo l’invasione di Gaza city ogni giorno è una escalation della crudeltà, siamo tornati alla barbarie, la carestia e la fame sono diventati strumenti di guerra. Ma quel che più ci deve indignare sono le responsabilità dell’Occidente in questi tragici avvenimenti: due democrazie hanno tradito la causa sulla quale abbiamo costruito il destino del mondo in questi ultimi ottant’anni.
Gli Usa che con la stagione di Trump non stanno solo disarticolando i tradizionali rapporti di alleanza transatlantica che avevano garantito la pace in Europa, stanno distruggendo l’equilibrio assicurato dalle istituzioni internazionali facendo riemergere il primato della forza sul diritto. Ne sono esempi il discorso tenuto dal presidente Trump all’Assemblea dell’Onu e, nella medesima occasione, la negazione del visto di accesso negli Usa ad Abu Mazen, presidente dell’Autorità Palestinese. Sullo stesso piano di legittimazione del primato della forza è avvenuta la riabilitazione di Putin sulla scena internazionale nell’incontro in Alaska, la denominazione “Dipartimento della guerra” al vecchio Pentagono e l’incondizionato appoggio a Netanyahu seppure stia sterminando sistematicamente decine di migliaia di civili palestinesi. Quel che più conta oggi per Trump è potersi arricchire magari creando una riviera balneare sulle macerie e sui corpi di un popolo.
Immense sono le responsabilità di Israele perché ciò che è cominciato come una ritorsione contro l’azione terroristica di Hamas si è trasformato in uno sterminio, in una sistematica espulsione da Gaza per cacciare quanti più palestinesi possibile e mettere la parte restante in una prigione a cielo aperto. Questo ha indotto la Commissione d’inchiesta dell’Onu a evocare il genocidio, perché ciò che sta avvenendo è una sistematica cancellazione dell’esistenza di un popolo con la propria storia e con i propri diritti.
Mentre queste atrocità caratterizzano la quotidianità del Medio Oriente in Europa ci si sta incamminando verso il quarto anno di guerra in Ucraina. Una guerra nata come invasione lampo per creare uno stato vassallo di Mosca e che con il prolungarsi dei tempi è diventata, nella versione di Putin, la guerra della Nato alla Russia. Intanto in questo prolungarsi degli eventi bellici i cieli di Polonia, Romania, Estonia, Danimarca, Norvegia, Lettonia, Svezia e Germania sono percorsi dai droni e dai caccia russi; troppi per essere degli errori. Sottovalutare i rischi di questa situazione potrebbe rappresentare un pericolo esiziale per un’Europa oggi lasciata sola a difendersi dal principale alleato: gli Usa. Il prolungarsi di questa situazione finirà inevitabilmente per mettere in discussione non solo il futuro sviluppo del nostro continente ma la sua stessa sovranità. L’urgenza delle risposte da dare e l’indispensabile coesione da tenere non possono più essere assoggettati alle lungaggini e inerzie tipiche della Commissione e del Consiglio europeo: momenti straordinari richiedono risposte straordinarie
L’ennesima crisi di governo in Francia e le recenti elezioni regionali in Germania rischiano di spalancare la strada all’estrema destra di Marine Le Pen e alla formazione neo-nazista AfD. Mentre l’Europa assomma queste nuove sfide alle sue consuete fragilità le democrazie sembrano immobilizzate in una tenaglia: da un lato la crisi sociale frutto principalmente di un sistema economico che ha concentrato la ricchezza e ampliato le povertà, trend amplificato da una tecnologia che corre a una velocità fino a pochi anni fa considerata impensabile; dall’altro lato un radicale cambiamento degli equilibri internazionali che riproponendo il primato della forza e lo strumento della guerra costringono a rapide decisioni su scenari del tutto imprevisti. Solo ora ci stiamo accorgendo che la globalizzazione incontrollata e l’egemonia delle big tech hanno accelerato la dimensione più preoccupante della crisi delle democrazie europee: la cancellazione delle profonde radici culturali e spirituali del nostro modello sociale. L’idea che ciascuno deve pensare a sé stesso e che quella economica sovrasti ogni altra dimensione hanno creato un vuoto spaventoso e una sfiducia crescente, proprio quando invece ci sarebbe bisogno di coraggio e di coesione.
In questi ottant’anni di pace e democrazia in Italia ci siamo illusi che la guerra fosse del tutto bandita. Anche l’influenza della cultura e della civiltà europee dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale ha concorso e rafforzato la convinzione che il nostro continente stesse costruendo sistemi politici e accordi economici che potessero mantenerci in pace. Le radici cristiane europee divennero poi il collante etico di questi principi. Oggi percepiamo in ritardo il rischio di aver trascurato i segnali di un mondo che sta cambiando profondamente e sta andando verso il dominio della forza e la sottomissione dei più deboli.
In questo contesto nemmeno più l’ancoraggio ai valori religiosi ci dà la certezza di poter trovare le profonde ragioni di una convivenza solidale e fraterna tra diversi popoli. La guerra di Putin all’Ucraina non è stata forse benedetta da Kirill il primate ortodosso di Mosca? Netanyahu non ha avuto il suo maggiore sostegno dalle formazioni teocratiche degli ultraortodossi? Governo e coloni non si sentono autorizzati a perpetrare l’eccidio e i furti della terra dei palestinesi in nome della loro stessa religione? Non si è premurato il cristiano evangelico Donald Trump nei primissimi giorni di insediamento di istituire l’ufficio della fede dentro la Casa Bianca? Non è il nazionalismo cristiano la base culturale della “civiltà” Maga? Tutte religioni simili alla nostra che stanno sostenendo la spada di fronte agli accadimenti della storia.
Eppure noi delle Acli instancabilmente continuiamo a cercare nell’insegnamento sociale della Chiesa le ragioni per costruire un mondo capace di vivere in pace, di creare benessere per tutti, rispettoso delle identità culturali e religiose di ognuno. Rifuggiamo dall’idea di costruire una società cristiana convinti come siamo che serve al nostro Paese e al mondo occidentale un’idea di laicità che riconosca il ruolo pubblico della religione, capace cioè di uscire dalla contrapposizione tra secolarizzazione e fondamentalismo, per rigenerare i valori e gli ideali di fondo della democrazia senza i quali l’Occidente rischia di perdere qualsiasi ruolo e senza i quali potrà solo isterilirsi qualsiasi sistema democratico. E con altrettanta convinzione ribadiamo che la pace si può costruire solo nelle difficili condizioni del presente, non basta evocarla astrattamente. Sarà fatta di dialogo e di rispetto, non meno che dalla determinazione della deterrenza.
Oggi che un barlume di speranza si affaccia per porre fine al conflitto a Gaza bisogna ricordare che il cessate il fuoco può diventare pace solo con la verità e la giustizia. Perché sia pace ci dovrà essere il riconoscimento dello Stato di Palestina, dovrà terminare l’isolamento della Cisgiordania, dovranno essere cedute le terre abusivamente conquistate dai coloni; sarà pace quando verrà riconosciuto il diritto di entrambi i popoli di vivere in sicurezza.
In questo contesto è stato fin qui deplorevole il galleggiamento del capo del Governo italiano che ha solo saputo pronunciare parole di circostanza al posto di riconoscere lo Stato di Palestina e che ha sempre ribadito la contrarietà alle sanzioni verso Israele, in tal modo finendo per rallentare anche le iniziative europee. Con un’Europa che rimane incerta e un governo che capovolge la tradizionale linea italiana di equilibrio in Medio Oriente la società civile è chiamata a una maggiore responsabilità. Rafforziamo la spinta dal basso per far sentire alta la voce nelle piazze. Sarà la determinazione della società civile a promuovere quel cambiamento che le istituzioni non sanno o non vogliono realizzare.