Idee
Nel dibattito sulla crisi e sul rilancio del Sistema sanitario nazionale non sempre risulta in primo piano il tema della comunicazione, intesa come tematica tecnica da delegare a qualche professionista nella vita dei luoghi di cura o nella comunicazione sociale e istituzionale. Senza nulla togliere alle competenze specifiche e utilissime in determinati frangenti, è utile mettere in luce la dimensione multiforme che la comunicazione può assumere, anche come rimedio alla crisi del mondo sanitario, alle prese con sfide epocali. Siamo ormai abituati a firmare ripetutamente consensi informati, quando ci rechiamo in ospedale o anche per approfondimenti diagnostici di routine. E si sta diffondendo anche il consenso informato digitale al passo con l’informatizzazione dei sistemi. Potrebbe sfuggirci il fatto che questi passaggi, se non attuano un vero processo di comunicazione, possono diventare solo momenti burocratici. L’informazione infatti deve adeguarsi alle diverse situazioni della persona assistita, con differenze di cultura, generazionali, ma anche con situazioni differenti a livello psico-fisico che possono influenzare la comprensione. Inoltre la società è sempre più plurale dal punto di vista delle provenienze, anche religiose,
così come delle opzioni che ognuno sceglie per la propria esistenza, rispetto a un contesto abbastanza omogeneo che poteva avere davanti il medico di un secolo fa. Ancora la complessità della medicina richiede la comunicazione tra curanti, per evitare di trincerarsi dietro un dislivello di informazioni difficilmente superabile e per fare una sintesi adeguata al paziente spesso rimpallato tra diversi reparti, sportelli e professionisti.
Solo con una comunicazione adeguata si evitano i caratteri di un “dominio informativo”. Solo con una comunicazione personalizzata la decisione ha elementi di consapevolezza. «Il tempo di comunicazione è tempo di cura», afferma all’articolo 1 la legge 219 del 2017 sul consenso informato. Per informare adeguatamente serve tempo, non solo nella relazione tra medico e persona assistita, ma anche con i familiari, tra medici della stessa équipe, tra gli operatori sanitari in tutte le diverse mansioni. E non manca il risvolto istituzionale rispetto alla comunicazione che un’azienda sanitaria opera all’esterno verso la
società. Questi passaggi possono riguardare tutte le situazioni, ma assumono una particolare importanza nella comunicazione di cattive notizie e nell’accompagnamento. A ben vedere il paziente oggi convive per molti anni con situazioni patologiche in modo cronico, a volte per decenni, e questo richiede un accompagnamento costante. Il medico non è più un guaritore, come nell’antichità, ma è un curante, che non può limitarsi a erogare prestazioni sanitarie. Se la tecnologia molto aiuta nel risparmiare tempo ed energie, non può sostituirsi a questa relazione di base che caratterizza il cuore della medicina.
È bene aiutare i professionisti della sanità, usciti senza dubbio provati dal Covid, a recuperare questa dimensione vocazionale della professione sanitaria. Ciò avrà indubbie ricadute non solo sul piano del benessere personale di chi opera in sanità e di tutti i cittadini che prima o poi hanno a che fare con la dimensione terapeutica, ma anche sul piano più ampio della crisi del sistema sanitario, riducendo i motivi di contrasto e aumentando l’attrattività per tanti giovani alla ricerca non solo di un’occupazione, ma soprattutto di un lavoro.
Il consenso informato, sancito dalla legge 219 del 2017, è un principio che sottolinea il diritto a essere informati sulla propria condizione di salute e sui trattamenti proposti prima di dare il proprio consenso a tali interventi.