Chiesa | Diocesi
Si è svolto recentemente a Roma un convegno catechistico che ha visto partecipare i direttori degli Uffici diocesani e le loro équipe. Il tema affrontato è stato “Edificati dalla comunità” (info: catechistico.chiesacattolica.it/). Si sono appena conclusi i lavori sinodali che hanno visto la Chiesa italiana impegnata a rivitalizzare la sua presenza nel territorio nazionale. Che il futuro della Chiesa dipenda dalla qualità delle comunità cristiane è un dato condiviso. Al di là dei proclami, però, rimangono da precisare i tratti reali di una comunità in grado di generare e far maturare personalità credenti credibili. È lecito, pertanto, domandarsi: che cosa è una “comunità”? Quali attenzioni pastorali si devono avere per favorire la nascita e la crescita di comunità “generative”?
Quando si parla di comunità cristiana il pensiero corre subito alla parrocchia che, come afferma il documento Incontriamo Gesù, «è, senza dubbio, il luogo più significativo, in cui si forma e si manifesta la comunità cristiana. […] Essa è, d’altra parte, l’ambito ordinario dove si nasce e si cresce nella fede» (IG 28).
L’esperienza, tuttavia, ci dice che l’affermazione di principio fatica a trovare riscontro nella realtà: si parla tanto di parrocchia “comunità di comunità”, “famiglia di famiglie”, eppure le aspettative rischiano di creare solo frustrazione nel quotidiano. Non sarà, forse, che il termine “comunità” viene utilizzato in maniera impropria? Gli addetti ai lavori ricordano, infatti, che “comunità” è il nome di un legame sociale ben preciso: designa un gruppo, normalmente di piccola taglia, caratterizzato da un ethos comune, da relazioni corte, dal calore e dalla convivialità, dall’affinità tra i suoi membri e originato da una scelta di appartenenza a esso. A ben guardare, sono aggregazioni, movimenti e gruppi presenti sul suo territorio a mostrare in forma più evidente le caratteristiche di una “comunità”; ma questi – è cosa nota – non sempre risultano bene inseriti nel tessuto parrocchiale.
Che fare? Papa Francesco indica la via che non è quella della sostituzione ma della riforma dell’istituzione parrocchiale: nella Evangelii gaudium parla di conversione pastorale e sostiene con forza che la parrocchia non è una struttura caduca e che «se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà a essere “la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie”» (EG 28).
A questo punto la domanda è: come fare? A quali condizioni è possibile attuare la necessaria conversione pastorale? Anzitutto, il termine “comunità” applicato alla parrocchia può dare origine a equivoci; sarebbe forse meglio usarlo con parsimonia, utilizzando preferibilmente la parola “parrocchia” tout court. In ogni caso, parlare di “comunità” per la parrocchia va inteso nel senso di ideale cui tendere, obiettivo verso cui impiegare le energie di tutti, dei singoli e dei gruppi.
La condizione necessaria è la capacità di dare testimonianza: al cuore di qualsiasi proposta evangelizzatrice non c’è in primo luogo una strategia pastorale, tantomeno un gruppo elitario ed esclusivo di perfetti ed esperti, ma una comunità di discepoli missionari, donne e uomini che fanno esperienza viva del Cristo risorto e vivono relazioni nuove generate da Lui, aperti all’azione del suo Spirito che precede sempre i suoi.
Il futuro della Chiesa dipende dalla qualità della vita e della testimonianza delle nostre comunità, perché i giovani e gli adulti di oggi domani verranno in chiesa per scelta e non per tradizione, per dovere o per paura; verranno perché ne avranno voglia e a patto che si sentano interessati dall’ambiente in quanto scoprono nelle comunità cristiane – pur con tutti i loro limiti – uno spazio in cui si vivono realtà che non si sperimentano in nessun altro luogo e che dona qualità, fecondità e pienezza alla vita: l’esperienza dell’incontro con Dio, l’esperienza dell’accoglienza e della fraternità e l’esperienza dell’impegno di solidarietà e di trasformazione del mondo.