Idee
La notte di Halloween si è trasformata in un incubo per un ragazzo di 15 anni con una disabilità cognitiva. Secondo quanto emerso dalle indagini avviate dalla Procura per i minorenni di Torino, tre adolescenti — due ragazzi e una ragazza tra i 14 e i 16 anni — avrebbero attirato il coetaneo in un’abitazione disabitata a Moncalieri, dove lo hanno minacciato con un cacciavite, gli hanno rasato capelli e sopracciglia, lo hanno costretto a immergersi nella Dora Riparia, deriso e ripreso con gli smartphone. I tre indagati risultano già noti per appartenenza ad una baby-gang responsabile di episodi di vandalismo. Abbiamo chiesto a Maria Beatrice Toro, psicoterapeuta e direttrice della Scuola di specializzazione in psicoterapia cognitivo interpersonale (Scint) (nella foto), di aiutarci a comprendere le dinamiche psicologiche dietro un episodio così grave e quali interventi siano necessari per “recuperare”, se possibile, questi ragazzi.
Professoressa Toro, anzitutto che cosa spinge alcuni ragazzi ad entrare nelle cosiddette “baby gang”?
Spesso questi adolescenti non hanno raggiunto adeguate tappe di sviluppo emotivo e relazionale e fanno fatica a vivere ed esprimere emozioni come rabbia, frustrazione e vergogna. A questo si aggiunge un bisogno esasperato di appartenenza al gruppo dei pari. All’interno di questi gruppi devianti la rabbia però viene “normalizzata” e si trasforma in violenza; violenza che si amplifica, diventa una risposta distorta al bisogno di identità tipico dell’adolescenza e sposta la vergogna sull’“altro”. È frequente anche un pensiero dicotomico, una visione semplificata della realtà in termini di “noi contro loro”, che aumenta la vulnerabilità a scelte deviate.
In questa vicenda la vittima è un ragazzo con una disabilità. Che cosa accade nel gruppo?
Nel contesto della “gang” si attivano dinamiche ben note:
deresponsabilizzazione individuale, “normalizzazione” della violenza, eccitazione per la trasgressione, progressiva desensibilizzazione.
Il gruppo cerca coesione anche nella violenza, che diventa via via più estrema. Gesto dopo gesto, si erode la libertà percepita di fermarsi: aumenta il meccanismo di sfida. Questo non elimina la responsabilità individuale, ma spiega perché diventi difficile interrompere la condotta violenta una volta “normalizzata”.
Quindi è lo spirito del branco a dominare?
Sì.
Nel gruppo, chi è fuori diventa “altro”, un bersaglio non più considerato persona.
Le reazioni della vittima diventano intrattenimento; l’empatia non scatta proprio perché negli autori delle violenze manca il rispecchiamento nell’alter ego. Questi ragazzi sono consapevoli del dolore inflitto, ma scelgono di non riconoscere la vittima come persona.
Ma perché accanirsi con tanta ferocia contro un coetaneo vulnerabile?
La scelta di un bersaglio fragile evidenzia una regressione a comportamenti di sopraffazione del più debole.
È segno di totale assenza di etica e morale. La fragilità visibile amplifica l’atrocità del gesto e diventa mezzo per affermare se stessi come “più forti” quando mancano altre forme di identità. Non si tratta di incapacità di coglierne le conseguenze, ma di regressione a comportamenti disumani. Questo tipo di delinquenza è una deliberata scelta morale, non una reazione automatica. È anche il frutto di un contesto che non ha saputo intercettare l’escalation di comportamenti devianti.
Infatti i tre adolescenti erano già noti per atti di vandalismo…
Questo caso non nasce in un giorno. C’erano segnali e precedenti, ma purtroppo anche quest’ultimo episodio prova il nostro fallimento – sociale e istituzionale – nel costruire senso di comunità e umanità, e il costante disinvestimento in percorsi di prevenzione e riabilitazione. Nel nostro Paese calano alcuni reati, ma aumentano femminicidi e violenze di gruppo, anche da parte di giovanissimi.
Non possiamo, tra l’altro, ignorare la pervasività di linguaggi di prodotti culturali – in particolare canzoni – che “normalizzano” la violenza.
Quali interventi ritiene necessari per “recuperare” questi ragazzi?
Serve un intervento sistemico che coinvolga i genitori (sono adeguati al loro compito?) e poi gli insegnanti, eventuali allenatori sportivi, tutti i contesti frequentati dai ragazzi, ma anche figure come assistenti sociali, psicologi e forze dell’ordine. Occorre parlare del fenomeno, non silenziarlo. È fondamentale agire tempestivamente a ogni nuovo segnale. Io proporrei anche esperienze riparative concrete di incontro con il mondo della disabilità per ricostruire la percezione dell’altro come persona “uguale a te”, anche se più fragile. In parallelo, penso inoltre a interventi cognitivo-comportamentali validati, focalizzati su empatia e lavoro di gruppo. Questi percorsi possono avvenire in istituti minorili e, idealmente, anche in comunità, integrati con una giusta retribuzione penale.
E per la vittima, già fragile, quale supporto sarà fondamentale per affrontare il trauma?
La priorità è garantire sicurezza psicologica e trattare i sintomi post-traumatici di paura e angoscia, simili a quelli di chi ha vissuto la guerra. Successivamente, è importante aiutare il ragazzo a recuperare il controllo, anche attraverso scelte legali e percorsi di giustizia riparativa, evitando che l’evento cristallizzi stereotipi di “fragilità”.
Nel medio-lungo termine, il lavoro psicologico mira ad integrare il trauma e a favorire una crescita post-traumatica, trasformando l’esperienza in risorsa e prospettiva di futuro.