Chiesa
In un Paese grande cinque volte l’Italia ma con appena tre milioni di abitanti, dove il vento delle steppe incontra le tende dei nomadi e la spiritualità buddista permea la vita quotidiana, la Chiesa cattolica in Mongolia è una presenza discreta ma viva.
A guidarla è il cardinale Giorgio Marengo, missionario della Consolata, prefetto apostolico di Ulaanbaatar, tra i membri più giovani del Collegio cardinalizio. Ci racconta una storia di pazienza, dialogo e carità evangelica.
Quando è iniziata la missione cattolica in Mongolia? E quanti sono oggi i cattolici del suo gregge?
La missione cattolica in Mongolia è iniziata nel luglio del 1992. Dopo l’avvio delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Mongolia arrivarono i primi tre missionari del Cuore Immacolato di Maria (CICM), conosciuti anche come Missionari di Scheut, una congregazione fondata alla fine dell’ottocento in Belgio. A loro si sono poi aggiunti altri ordini missionari. All’epoca non c’era nessun cattolico locale. Oggi siamo 1516 fedeli.
Come è vista la chiesa cattolica in un paese di tradizione buddista e sciamanica e caratterizzato da decenni di ateismo nel ‘900?
Una Chiesa piccola, rappresentiamo meno dell’1% della popolazione, nata nel silenzio, che si sviluppa passo dopo passo. Pian piano si è guadagnata nel paese la stima, il rispetto per il grandissimo lavoro, soprattutto in campo sociale e caritativo che rappresenta ancora il 70% di quello che facciamo. Si è fatta conoscere per l’impegno costante nella promozione umana, nell’educazione e anche nella testimonianza del Vangelo. All’inizio non c’erano strutture né comunità, solo la fiducia che il Vangelo avrebbe trovato spazio anche in un contesto tanto diverso, in dialogo rispettoso con la cultura mongola. La priorità, oggi, è mettere radici sempre più profonde nella cultura locale. Vogliamo essere un segno evangelico per tutti, testimoniando con semplicità la fede e la carità, dentro la vita del popolo mongolo.
Che significato ha avuto per la Mongolia la visita di papa Francesco nel 2023? Ed è cambiata la percezione dei cattolici dopo quella storica visita?
La storica visita di Papa Francesco nel settembre 2023 ha segnato una svolta. È stata un dono di grazia per tutti noi ed è proprio attraverso la sua testimonianza personale di uomo di Dio, di leader religioso di fama mondiale, che Papa Francesco ha anche aiutato moltissimo la Chiesa cattolica a essere identificata in modo più chiaro, e la popolazione locale a comprenderne l’identità, la storia, l’organizzazione che la rendono anche unica nel panorama ecumenico delle chiese cristiane. Fin dall’inizio, il dialogo interreligioso è stato una dimensione essenziale della missione. Parte dalla conoscenza, dal rispetto reciproco e poi si sviluppa in vera e propria amicizia e anche in collaborazioni concrete, in un paese a maggioranza buddista e sciamanica. È dunque una necessità ma anche un dovere di conoscenza e di approfondimento delle relazioni con questo mondo che ha plasmato l’identità culturale e religiosa mongola. Sono state avviate diverse collaborazioni sul territorio. Lo scorso gennaio ho accompagnato a Roma l’abate del principale monastero buddista della Mongolia il quale è recentemente ritornato a Roma per la commemorazione dei sessant’anni della Nostra Aetate. Insieme abbiamo incontrato il Santo Padre Francesco, poco prima che lui venisse ricoverato. È stato un gesto di amicizia e di fiducia reciproca.
Nel paese meno abitato del pianeta quali sono i principali problemi? E la chiesa cosa fa per stare accanto ai poveri?
La Mongolia, per la sua posizione geografica sotto la Siberia e al Nord della Cina, è un paese con un clima continentale molto rigido, per cui ci sono lunghi inverni con temperature polari e questo da sempre rende la vita non facile. È quindi un paese che si è saputo forgiare con questo tipo di condizioni che mettono alla prova chiunque. Da un punto di vista dello sviluppo la Mongolia vive una fase di transizione: dopo gli anni difficili del post-comunismo, il Paese cresce economicamente con un miglioramento delle condizioni generali di vita, riconosciuto anche dalle agenzie internazionali, ma restano forti diseguaglianze e squilibri. Nelle periferie di Ulaan ar si concentrano le situazioni di povertà più dolorose, con disagio, tensioni sociali. La Chiesa è da sempre accanto a queste persone con opere concrete. Abbiamo un numero di progetti veramente interessante in termini di energie profuse, nell’educazione, nell’assistenza, nella promozione, nella cura delle fasce più deboli. Distribuzione di cibo, assistenza a domicilio, doposcuola e scuole formali in cui i giovani si possono formare, accompagnamento di persone con disabilità. Ogni parrocchia fa interventi di aiuto ai poveri. Il progetto più visibile è la Casa della Misericordia, inaugurata da Papa Francesco nel 2023: un centro che offre pasti caldi, docce, cure mediche, ascolto e accoglienza. È una porta sempre aperta verso chi ha più bisogno.
Infine, che cosa significa essere il pastore, un cardinale, di un gregge così piccolo e lontano? Cosa significa l’Asia per la Chiesa?
È una grazia e una responsabilità. Viviamo qualcosa di simile alla Chiesa delle origini, quella descritta negli Atti degli Apostoli: una comunità che cresce piano piano, si radica nella Parola, celebra i sacramenti e si fa prossima nella carità. Quindi è una fase molto delicata e per questo sentiamo anche il peso della responsabilità e abbiamo il desiderio di mettere le basi giuste, costruire sulla roccia, che è Cristo, per poter poi accompagnare la Chiesa in quel particolare contesto, a crescere, a radicarsi, a dare testimonianza del Vangelo alla società circostante. Questo vuol dire anche un investimento molto grande nella formazione, nell’accompagnamento della prima generazione cristiana che è quella che forma la nostra comunità ecclesiale. La maggior parte dei fedeli mongoli è infatti di prima generazione cristiana. Ora vediamo i figli dei primi battezzati: segno che la fede mette radici e genera vita nuova. Nell’orizzonte delle Chiese locali la Mongolia si staglia come uno dei pochi casi di chiesa così giovane. Nel contempo condivide con il resto del continente asiatico, con pochissime eccezioni, il fatto di essere una chiesa minoritaria. Essere minoranza però non è una condizione di debolezza ma un grande insegnamento. L’esperienza di essere Chiesa nella marginalità quindi è un’esperienza di fede, è un’esperienza ecclesiale che, a mio modo di vedere, ha molto da dire al resto della Chiesa universale. È la testimonianza del Vangelo vissuto nella fiducia e nella povertà dei mezzi. In questo c’è la bellezza della fede come piccolo seme, come lievito, che può cambiare la terra che lo accoglie, trasformare una società, essere segno di speranza senza contare su strutture, su rilevanza sociale, ma sulla freschezza della risposta evangelica che le persone danno. Quindi anche su un modo di concepirsi come chiesa in modo diverso rispetto a quello che abbiamo in mente in Occidente. Poi, non è il caso della Mongolia, ma di tante altre chiese dell’Asia, c’è anche la testimonianza eloquente del martirio. È una realtà che ha segnato gli ultimi secoli in maniera drammatica, ma che ha dato vita a delle risposte di fede veramente luminose che aiutano la Chiesa universale.