Chiesa
Un Centro di ecologia integrale ispirato all’enciclica di Papa Francesco, la Laudato si’: è l’iniziativa messa in campo un anno fa dalla Caritas Ticino, nella diocesi di Lugano. Il Centro sorge nel paese di S. Antonino (distretto di Bellinzona) all’interno della azienda agricola biologica sociale “CatiBio”. Fondata nel 1994, l’azienda si aggiunge ad altre attività di economia circolare promosse da Caritas Ticino. A fine settembre Caritas Ticino ha anche promosso un convegno a dieci anni dalla Laudato si’ sul tema “Il bene è comune?”. Del Centro parliamo con il direttore di Caritas Ticino, Stefano Frisoli.
Come nasce l’idea di questo Centro di ecologia integrale Laudato si’?
L’idea nasce recentemente, ma in realtà è frutto di un percorso lungo che Caritas Ticino ha fatto negli ultimi 30 anni, legato al tema dell’inserimento socio-professionale di persone in disoccupazione e in assistenza, che in Svizzera vuol dire a carico dei Servizi sociali. Pur essendo un’associazione, Caritas Ticino di fatto si è mossa negli ultimi anni come un’impresa sociale, per cui il tema dell’inserimento socio-lavorativo per noi è sempre stato caratterizzato da luoghi di lavoro e da attività legate all’economia circolare, negozi del second hand, luoghi di frazionamento di materiale elettrico-elettronico, raccolta sul territorio e agricoltura sociale biologica, che è una delle caratteristiche di questi luoghi. Abbiamo preso consapevolezza, negli ultimi 10 anni, che le attività avevano questo fil rouge. Abbiamo iniziato un percorso di maggiore riflessione intorno a cosa stavamo proponendo e perché c’era una relazione stretta tra economia sociale ed economia circolare. Tutto questo ha portato fino allo sviluppo del progetto e all’acquisto, due anni fa, della nuova azienda agricola nella quale c’erano alcuni spazi che dovevano essere utilizzati per i partecipanti. Uno di questi era una vecchia stalla: da qui è nata l’idea che questo spazio, quotidianamente utilizzato dal personale, accolga il Centro Laudato si’, una realtà immateriale che ogni tanto si incarna e diventa il luogo dove noi proponiamo una finestra sui temi che accompagnano il nostro impegno: il lavoro, il mondo ecclesiale, il mondo dell’economia sociale, il mondo dell’economia circolare, mischiando tematiche tecniche e di servizio, che è un po’ la caratteristica trasversale di questa proposta.
Abbiamo scelto che il Centro fosse parte di un percorso: farlo dentro l’azienda agricola per noi aveva un significato particolare, per evidenziare che il Centro non rimane altro dall’attività che proponiamo tutti i giorni, ma anzi è assolutamente pregnante e rilancia quello che facciamo quotidianamente, ossia incontri con tante persone che vivono fragilità, marginalità e difficoltà sociali.
Il legame quindi con la Laudato si’ nasce in questo percorso articolato?
Esatto, perché nel percorso di riflessione in questi anni
la Laudato si’ è stato uno strumento di lavoro importante per noi.
Alcune intuizioni erano in campo già prima e i percorsi muovevano intorno anche a riflessioni sull’economia più ampia, come quelle del premio Nobel per la pace Muhammad Yunus o del Nobel per l’economia Amartya Kumar Sen, però è certo che il 2015 è stato un anno veramente importante per noi, perché la Laudato si’ è stato uno spartiacque. I suoi temi incrociavano l’impostazione che in qualche modo avevamo incominciato a praticare. Ci tengo a dire che è un percorso, perché è qualcosa che piano piano per noi si è generato come disvelamento e tuttora siamo in un processo, quindi ancora oggi stiamo riflettendo sulle diverse connessioni dei piani differenti, però
la Laudato si’ divenne un momento nel quale il grido dei poveri, il grido della terra, esplicitato in un modo assolutamente preciso, è diventato una provocazione importante: diceva quello che in qualche modo stavamo tentando per altri versi di praticare e quindi l’enciclica è stata un momento di upgrade per noi.
Quali sono le problematiche economiche che affliggono maggiormente la vostra area territoriale e in che misura si riesce a rispondere anche con progetti di questo tipo?
La Svizzera ha un sistema di welfare molto forte, sicuramente molto più forte di tanti altri posti del mondo, quindi il concetto di povertà praticato qui non ha equipollenti. Il tipo di povertà che abbiamo qui non si misura con l’indigenza per intenderci, perché il sistema di welfare state copre le urgenze prime che sono la casa e il cibo, quindi le persone hanno un minimo vitale per poter vivere. Ma se il tema della povertà è legato a un concetto culturale, questa povertà si misura anche in termini diversi e ha a che fare con la precarietà, la marginalità, la solitudine, un sistema che piano piano allontana le persone da modelli di comunità inclusiva. La nostra azione sociale non crea mense, perché non è strettamente necessario, ci sono delle urgenze e queste vanno coperte come tali, ma il problema sistemico è altro, perché se mediatamente una persona in Svizzera, in Ticino, non muore di fame, però è probabile che possa anche morire di solitudine o ancora di più da sola. Un aspetto che incrociamo è proprio la ricostruzione di una comunità dal basso.
Dentro la logica di rilancio socioprofessionale di una persona noi abbiamo un ruolo che non è solo quello di fare da agenzia interinale per trovare un lavoro alla persona, ma quello di tentare, per quanto è possibile, di riconnettere la persona con un tessuto e questo tessuto laddove esista rivivificarlo, animarlo perché possa raccogliere anche le sfide di un modello socioeconomico differente.
Possiamo dire che per certi versi è un laboratorio sociale interessante, perché normalmente altri posti si confrontano con emergenze differenti e, una volta risolto il problema economico, si pensa che i problemi siano tutti sotto controllo; in realtà non è così, perché poi è quale modello di società e comunità vogliamo proporre che fa la differenza.
Come vengono selezionate le persone che lavorano presso la CatiBio?
Abbiamo degli accordi con le istituzioni. Abbiamo persone che arrivano in disoccupazione: dopo che si è lavorato almeno per un anno, si ha il diritto a ricevere un’indennità di assicurazione, tra i doveri quello di partecipare ai corsi, nel nostro caso corsi legati ad attività lavorative. Poi abbiamo persone che sono in assistenza: coloro che non hanno più alcuna copertura e sono legati ai servizi, persone che magari non lavorano da tanto tempo, alcune di loro non hanno mai lavorato, molti sono migranti, c’è una difficoltà di accesso ai sistemi digitali, c’è un allontanamento dato anche dalla digitalizzazione del sistema informatico dei comuni, delle istituzioni, sono persone che spesso non hanno avuto molte occasioni o quelle che hanno avuto le hanno perse o non sono state capaci di coglierle, sono persone che cercano di ritrovarsi e attraverso il ritrovarsi ritrovare anche lo slancio per riaffacciarsi sul mondo del lavoro. Credo che in ultima analisi il lavoro che proponiamo ha a che fare anche con l’aspetto dell’inserimento professionale, ma in primo luogo è poter immaginare insieme che c’è una modalità diversa di fare le cose anche nel processo economico, quindi mentre lavoriamo insieme alle persone tentiamo di dare una risposta anche ai bisogni del territorio.
L’azienda agricola, che si muove nella vendita di filiera corta dei prodotti, sta dicendo che c’è un modo diverso di fare la spesa per sostenere l’economia locale.
Ragionare sullo scarto che è quello su cui lavoriamo normalmente, sui rifiuti che siano elettronici o gli abiti che buttiamo piuttosto che i mobili, i libri o l’oggettistica, ci dice quale modello di consumo abbiamo, quindi possiamo provare modalità diverse per generare un’economia che possa creare ricchezza non solo economica, ma anche valoriale. Tutto ciò diventa l’elemento su cui noi proviamo a lavorare, immaginando che in questo nuovo modello economico ci sia spazio per tutti.
Si può pensare a un’ecologia sociale in questo senso?
Sì, assolutamente, possiamo definirla in vari modi, ma credo che la Laudato si’ dica esattamente questo: quando rimetti mano all’ipotesi di un luogo dove abitano persone, famiglie, realtà lavorative, quel contesto diventa casa tua.
L’auspicio è che la cura di quel luogo non sia solo un’opera di mero assistenzialismo ecologico, ma diventi la possibilità di uno sviluppo diverso attraverso la cura di quel luogo e la cura delle relazioni e produca altro da quello da cui si è partito.
Quali sono le prospettive future, visto che è un percorso che sta crescendo?
Crediamo che sia la costante connessione con il territorio, essere parte di uno sviluppo comunitario vuol dire portare la propria originalità nel rispetto dell’originalità degli altri, trovare momenti dove si possa costruire una solidità diversa di relazione. Per troppo tempo credo che le divisioni anche ideologiche abbiano rappresentato un limite nel quale ogni realtà trovava una sua collocazione, ma poi viveva una autoreferenzialità che magari produceva ottimi risultati, ma senza incidere veramente sul cambiamento. Penso che oggi il cambiamento passi da una rivisitazione anche delle logiche di relazione, che non vuol dire fare un sincretismo vuoto per cui tutti debbano stare dentro un pensiero unico che possa soddisfare tutti: ognuno di noi ha le sue differenze e le organizzazioni riflettono anche la profilazione del mondo attraverso il loro percorso storico, noi siamo la Caritas della diocesi di Lugano, la nostra adesione al Magistero della Chiesa è chiaro. Ma credo che ci sia oggi spazio per fare un lavoro differente di connessione sul territorio per promuovere un modello diverso,
ripartire dalle comunità di base per una vera innovazione sociale.