Chiesa
“Con grande dolore seguo le tragiche notizie che giungono dal Sudan, in particolare dalla città di El Fasher, nel martoriato Darfur settentrionale. Violenze indiscriminate contro donne e bambini, attacchi ai civili inermi e gravi ostacoli all’azione umanitaria stanno causando sofferenze inaccettabili a una popolazione già stremata da lunghi mesi di conflitto”. Papa Leone XIV al termine dell’Angelus del 2 novembre scorso ha ricordato la tragica situazione del Sudan, invitando alla preghiera e rinnovando un accorato appello alle parti coinvolte per un cessate-il-fuoco e l’apertura urgente di corridoi umanitari. Infine ha esortato la comunità internazionale “a intervenire con decisione e generosità, per offrire assistenza e sostenere quanti si prodigano nel portare soccorso”. In Sudan, con 14 milioni di sfollati, è catastrofe umanitaria. Il Paese è afflitto da violenze, colera e nei mesi scorsi è stato scosso da una frana sui monti Marra che ha ucciso circa mille persone. Mons. Tombe Trille, vescovo di El Obeid, si fa voce di un popolo che soffre.
Può descriverci la situazione nella sua diocesi, a partire dal Darfur?
La diocesi di El Obeid si estende su un territorio enorme: cinque Stati del Darfur e quattro del Kordofan. La nostra Chiesa sta vivendo una delle pagine più dolorose della sua storia. Dallo scoppio del conflitto in Sudan, il 15 aprile 2023, la Chiesa nella diocesi di El Obeid e in particolare nella regione del Darfur sta assistendo alle sofferenze dei fedeli e del popolo di Dio: aumento delle vittime, distruzione di proprietà, sfollamenti, difficoltà per le famiglie costrette a fuggire, crisi economica. Il conflitto ha colpito duramente anche il personale ecclesiastico: rettorie, conventi e seminari sono stati distrutti e abbandonati. Finora cinque delle nostre parrocchie sono state profanate, saccheggiate e vandalizzate. Alcuni nostri sacerdoti e religiosi sono stati costretti ad abbandonare le missioni. Il dolore più grande è stata la perdita di padre Luke Jumu, parroco di Our Lady Help of Christians a El Fashir, ucciso il 13 giugno 2025. A ciò si è aggiunta una tragedia naturale: una frana ha colpito un villaggio nella parrocchia di San Giuseppe, causando circa mille vittime. È stato uno dei disastri più gravi degli ultimi anni.
E nel Sud Kordofan cosa accade?
La missione pastorale nel Sud Kordofan opera oggi in condizioni estreme, segnate dalla guerra civile, da violenza diffusa, carestia e ostacoli deliberati all’assistenza umanitaria. Il servizio pastorale e missionario si è ormai intrecciato con un urgente impegno umanitario, fornendo rifugio, cibo e sostegno spirituale ai numerosi sfollati provenienti da Kadugli, Dilling e Abu Jubbah. Nel nord del Sud Kordofan, nella zona dei Monti Nuba, è stata dichiarata emergenza fame. Il conflitto ha distrutto le infrastrutture agricole e sia le Forze Armate Sudanesi (SAF) sia le Rapid Support Forces (RSF) sono accusate di aver politicizzato e utilizzato come arma gli aiuti umanitari, impedendo che raggiungessero le comunità bisognose. Le parrocchie di Kadugli e Dilling risultano tuttora assediate. Gli scontri si estendono inoltre verso gli Stati meridionali, compreso il Sud Kordofan, obbligando numerosi civili – compresi sacerdoti e fedeli – a rifugiarsi più a sud, in aree controllate dal movimento SPLM-N. In foreste o valli carcano di sopravvivere, ma fanno fatica a reperire beni di prima necessità.
In queste condizioni la Chiesa riesce comunque a stare accanto alla popolazione?
Da un punto di vista pastorale, in alcune zone del sud controllate dallo SPLM-N, resiste ancora un buon numero di sacerdoti e religiose, e scuole e ospedali continuano a operare pur tra enormi e crescenti necessità. La Chiesa svolge qui la sua missione in maniera efficace e diversi sacerdoti sfollati dal Darfur prestano ora servizio pastorale in quest’area. La Chiesa continua a investire nell’educazione dei bambini e nella cura sanitaria: è oggi l’istituzione più attiva della regione. Qui vediamo speranza per il futuro. Questa zona rappresenta oggi il cuore della presenza ecclesiale in Sudan, dopo la separazione del Sud Sudan avvenuta nel luglio 2011. Molti fedeli, insieme ai loro sacerdoti, vivono in condizioni disperate. Attualmente otto parrocchie si trovano in situazioni di emergenza: El Fashir, Nyala, Edeain (Darfur); Kadugli, Dilling, Abu Jubbah (Sud Kordofan); Babunusa e Enhud (Kordofan occidentale). Le persone soffrono fame, mancanza di acqua, medicine e protezione. Alcuni dormono in letti di fango lungo fiumi o valli, senza riparo.
In mezzo a tutto questo dolore, come si mantiene viva la fede? E la speranza?
Nonostante le sofferenze e le tribolazioni causate dal conflitto, la Chiesa è sorretta dalla Parola di Dio: “Coraggio, io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). È sostenuta dalla preghiera di tutta la Chiesa universale. Sant’Agostino ci ricorda che la sofferenza è medicina contro la superbia e purificazione: un cammino verso maggiore forza spirituale e maturità per i suoi membri. Quanto alla speranza siamo sempre fiduciosi. La Chiesa in Sudan raramente ha conosciuto la pace e tuttavia ha sempre saputo resistere e camminare attraverso tempi difficili. Continuiamo a sperare di poter portare avanti la missione e svolgere un ruolo positivo in una società lacerata dal conflitto. Le nostre poche scuole e dispensari rimasti sono oggi strumenti di dialogo e unità tra le famiglie e i bambini appartenenti alle due fazioni in lotta. Nelle istituzioni sociali della Chiesa trovano un luogo sicuro e pacifico. Crediamo che il Signore stia purificando la nostra fede e preparando un nuovo futuro. Non dimenticate il Sudan. Pregate per noi. La guerra non avrà l’ultima parola: Cristo sì. E noi continueremo a testimoniare la fede, la speranza e la carità tra chi soffre.
L’impegno costante della Chiesa diventa così lievito per costruire la pace, nonostante tutto. Proprio “Costruire la pace, guarire le ferite e rafforzare l’unità” è stato il tema al centro della 51ª assemblea della Conferenza dei vescovi di Sudan e Sud Sudan (SSS-CBC) che si è svolta nella seconda settimana di novembre presso la diocesi sudsudanese di Malakal. In una dichiarazione congiunta i vescovi sottolineano che «è allarmante che il dialogo non sia più visto come veicolo di armonia, guarigione, riconciliazione e unità». “L’unità nella diversità tra etnie e comunità del Sudan e del Sud Sudan è stata fonte di forza nel contesto delle loro storie, religioni, razze e culture. Questa ricchezza nella diversità non dovrebbe essere rovinata da politiche miopi e divisive, perché un futuro prospero risiede nella convivenza armoniosa”. In conclusione hanno lanciato un appello affinché tutte le parti in causa attuino pienamente l’Accordo rivitalizzato del 2018 sulla risoluzione del conflitto in Sud Sudan (R-ARCSS) per creare fiducia nella popolazione e intraprendere la via del dialogo.