Storie
Cambogia-Italia e ritorno. Tutta la fortuna di essere Udom
La storia di Udomsmith De Lorenzi, nato in Cambogia quindici anni fa e del suo viaggio di ritorno insieme alla sua famiglia che abita alla Madonna Incoronata a Padova.
La storia di Udomsmith De Lorenzi, nato in Cambogia quindici anni fa e del suo viaggio di ritorno insieme alla sua famiglia che abita alla Madonna Incoronata a Padova.
«Ognuno ha una storia bellissima da raccontare. La mia è fantastica grazie alla mia famiglia e ai miei amici». Udomsmith De Lorenzi ha quindici anni e ti sorprende per la sua chiarezza interiore, espressa da una dolcezza misteriosa nella voce e nelle parole.
Lo scorso dicembre ha affrontato il viaggio più difficile: tornare in Cambogia, da cui era partito ad appena un anno in braccio ai suoi genitori, Marco e Barbara. Tornare per capire, per vedere la vita dei bambini come lui, «per concludere un percorso tutti insieme e ognuno singolarmente, perché i ragazzi sono in pace con la loro storia nella misura in cui lo siamo anche noi – spiega Barbara – perché come tutte le mamme e i papà anche noi dobbiamo accettare che non è figlio nostro, ma appartiene al mondo, ancor di più di un figlio naturale».
Udomsmith è il nome scelto per lui dall’istituto dove è stato lasciato a soli due mesi di vita a Battambang, nel Nordovest del Paese: significa prosperità che viene da Occidente ed è il più grande augurio che si possa fare a un bambino cambogiano.
Dopo la patria di Udom, il viaggio non si è fermato, proseguendo in Thailandia dove è nato e vissuto fino a sei anni Kawin, che di anni ne ha quattordici e volteggia in aria sulle parallele come una libellula, come se fosse la cosa più semplice di questa terra. Tutto un altro viaggio quello nel Paese di Win, che ha voluto altre modalità, tutte differenti, per ripercorrere soltanto le “strade” già viste con papà Marco, mamma Barbara e Udom nei giorni del loro primo incontro, quando è “nato” dentro alla sua famiglia.
Udom, che frequenta il primo anno di alberghiero alla Dieffe di Noventa Padovana ed è esploratore negli scout d’Europa della Madonna Incoronata dove tutta la famiglia è inserita, racconta con naturalezza – quasi non servono le domande – il suo avvicinamento interiore alla Cambogia, aiutato anche dal gruppo adolescenti dell’équipe adozioni dell’Ulss 6 Euganea. «Da tempo Udom ci chiedeva di tornare – racconta sorridendo Barbara – ma non da solo e prima che diventassimo vecchi».
«Il mio desiderio più grande era andare nell’istituto dove sono stato lasciato. Immaginavo i sorrisi dei bambini, pensavo che mi avrebbero ritenuto più fortunato perché ho una famiglia e avevo paura di far loro del male. Ma, invece, tutto è andato in modo inatteso. Parlando con loro in inglese e con l’aiuto di un’interprete ho capito che la loro era già una fortuna: avere dei genitori che li hanno tenuti con sé».
Nel 2002, l’anno di nascita di Udom, la guerra era finita da pochi anni e tutto era da ricostruire. «I miei genitori non mi avrebbero di certo potuto mandare a scuola. Sento di essere stato fortunato perché non mi hanno abbandonato per strada, ma mi hanno consegnato all’orfanotrofio. A volte penso che se fossi stato con loro, non avrebbero potuto sfamarmi, da piccolo avrei venduto braccialetti e adesso forse farei il tassista o distribuirei giornali».
Grazie al Ciai, l’associazione internazionale attraverso la quale Marco e Barbara hanno adottato i loro figli, durante il viaggio Udom è venuto in contatto con “Street to school”, progetto avviato qualche anno fa per permettere alle famiglie di affidare i loro bambini dai sei anni in su a luoghi sicuri dove trascorrere insieme il tempo fuori da scuola, che in Cambogia è a turni la mattina o il pomeriggio perché le strutture pubbliche sono poche e gli alunni troppi. «Non ne sapevo nulla e me ne sono innamorato perso immediatamente. “Street to school” aiuta i genitori in difficoltà, che lavorano notte e giorno per sfamare le loro famiglie, perché possano crescere i figli con l’aiuto del Ciai senza il rischio che vengano inghiottiti dallo sfruttamento minorile o dalla violenza».
Ma cosa significa per un ragazzo di quindici anni aiutare bambini sconosciuti dall’altra parte del mondo, promuovere una raccolta fondi, raccontando la propria storia di fronte a centinaia di persone? «Se mi chiedessero di appoggiare un progetto per bambini in Africa, lo farei senza problemi. Ma aiutare la Cambogia significa aiutare la mia gente (me ne sento legato per il 20 per cento), anche se magari oggi loro non mi considerano tale. Io sarei potuto essere uno di quei bambini…».
E poi perché a quindici anni non ci può impegnare per qualcosa di grande che non riguardi solo se stessi? Udom ha già la risposta in mente. «Come tutti i miei coetanei, anch’io ho un profilo Instagram e vedo come la maggior parte scatti continuamente con il cellulare e non pubblica altro che selfie. Io voglio essere e sentirmi diverso, perché ho una vita fantastica. Qualche sera fa ho visto il film I dieci comandamenti: il faraone dice a Mosè che i suoi genitori lo hanno amato talmente tanto da consegnarlo alle acque sicure del Nilo per salvarlo dalla persecuzione, poi la figlia del faraone lo ha trovato e lo ha cresciuto come un figlio. Io mi sento come Mosè e i miei genitori sono come la figlia del faraone che mi hanno tenuto e portato con sé».