IdeeSiete anche voi tra quei milioni di lavoratori italiani che con la quarantena generale causa Covid-19 si sono portati a casa il lavoro? Allora benvenuti nel club! Sì, certo, ne facciamo parte anche noi della Difesa e siamo in buona compagnia: almeno 1,9 milioni di lavoratori, stando alle comunicazioni ufficiali arrivate al 1° maggio al Ministero del lavoro, data in cui sono state sospese.
Ma le stime parlano di 2,5 milioni di impiegati nella pubblica amministrazione e altrettanti nel settore privato. E c’è uno studio Cgil-Fondazione Di Vittorio che si spinge addirittura fino agli otto milioni. In ogni caso, rispetto al mezzo milione dell’era pre-Covid, il balzo in avanti è notevole, tanto che il termine rivoluzione non appare esagerato.
Bene. Tuttavia, se seguendo i tg o spulciando la rete vi siete convinti di aver fatto dello smart working, allora significa che abbiamo un mito da sfatare. L’enorme esperimento di massa che il mercato del lavoro italiano ha compiuto dal 3 giugno in poi – prima rimanere in casa anche per lavorare era un obbligo; dopo chi lo ha fatto è stato per scelta sua e del datore di lavoro – va chiamato piuttosto “lavoro da remoto” o “lavoro da casa”. Rispetto a prima, insomma, è cambiato solo il luogo in cui svolgere le proprie mansioni (camera o soggiorno, appunto) ma poco o nulla sulle modalità. Il vero smart working implica invece un sistema di relazioni interne alle aziende o agli enti ben diverse, il cui effetto più evidente è la valutazione del lavoratore non per le ore in cui è presente (in ufficio o in connessione poco cambia), ma in base agli obiettivi che raggiunge, a prescindere dal tempo che impiega. Viene da dire che la vera rivoluzione starebbe proprio qui. Eppure anche il remote working o home working che in molti abbiamo testato lascerà dietro di sé una serie di conseguenze capaci di mutare il mercato del lavoro. Per rispondere alla domanda “come evolverà il nostro modo di lavorare in futuro?” occorre partire proprio da qui.
Mercoledì 17 giugno la Fondazione Nord Est ha inaugurato un ciclo di webinar che si concluderà a ottobre (info su www.fnordest. it) e proprio nel primo appuntamento – intitolato “Il futuro del lavoro. Digitale, smart working, organizzazione, management, welfare” – il prof. Federico Butera, emerito di scienze dell’organizzazione e presidente della Fondazione Irso, è stato chiaro sul punto: «L’approdo allo smart working reale prevede lo smantellamento dell’“ufficio-fabbrica” basato su modelli tayloristici con sistemi professionali e direzionali. Lo smart working implica un Luca Bortoli nuovo modo di cooperare, condividere conoscenze e vivere il senso della comunità di lavoro. Il fatto che si proceda per risultati funziona se gli obiettivi sono costruiti all’interno del ruolo di ogni singola persona in campo: abbandoniamo i concetti di mansioni e figure, i punti di forza dell’azienda stanno nei profili personali di chi la compone e non nella posizione dei singoli all’interno dell’organigramma».
Secondo Butera siamo di fronte a una fase di job-design o jobcrafting, un periodo dunque in cui il nuovo modo di lavorare nelle aziende o negli enti va progettato e plasmato. «Occorre mettersi il prima possibile in questa prospettiva – insiste il professore – tenendo conto che alcuni passaggi non si compiono a livello della singola organizzazione, ma in forma trasversale. Penso in particolare alle infrastrutture, e prima di tutto quelle digitali, e alla formazione che offra le competenze necessarie e l’idea di lavoro come costruzione della propria identità. Il rischio altrimenti è l’aumento delle già marcate diseguaglianze sociali».
Sul tema “competenze” ha riflettuto il prof. Paolo Gubitta, vicedirettore del Dipartimento di scienze economiche e aziendali dell’università di Padova. «Proprio nei giorni del lockdown abbiamo aggiornato una ricerca fatta da Università di Padova e Veneto Lavoro nel 2018 – ha spiegato – Abbiamo chiesto a 300 lavoratori nati tra il 1965 e il 1992 di spiegare il contenuto del loro lavoro e quindi quali competenze fossero necessarie. Ebbene, due anni fa emergevano abilità di tipo relazionale, analitico, la capacità di dare supporto ad altri e lavorare in team oltre alle skill informatiche e di comunicazione digitale. Oggi assistiamo all’esplosione della frequenza con la quale è stato richiesto a queste stesse persone di ricercare informazioni on line, comuncare, creare fogli di lavoro, confrontare le fonti, produrre presentazioni, operare in cloud computing. C’è quindi un aumento importante di competenze non specifiche o relazionali ma digitali e informatiche. E questo privilegia persone con 30-49 anni di età, quindi le aziende hanno preferito far lavorare personale con maggiore esperienza, e con titoli di studio più elevati».
Da qui il rischio di una polarizzazione del mercato tra laureati e non. Di questo ha parlato Daniele Marini, che insegna Sociologia dei processi economici nello stesso ateneo. «In questa fase dobbiamo porre grande attenzione a chi potrebbe rimanere escluso dai processi in atto: non solo le imprese devono avere le infrastrutture adeguate, ma gli stessi lavoratori, come pure gli studenti, devono essere provvisti degli strumenti necessari». Marini sfata il mito di una nazione in lavoro da remoto. «Una ricerca nazionale su mille lavoratori svolta a fine aprile ha confermato che solo uno su tre si trovava in remote working di cui il 15 per cento nell’industria, il 20 per cento nei servizi e uno su due nella pubblica amministrazione. Non sarà questa l’unica modalità di lavorare in futuro».
Ma il nostro sistema formativo va ripensato: le ricerche di Marini, tanto su lavoratori vicentini quanto su responsabili delle risorse umane nell’automotive, mettono in evidenza l’ascesa di competenze cognitive, relazionali e analitiche: sarà sempre più importante apprendere lavorando e non solo studiando. «Siamo di fronte a un cambio di paradigma – ha concluso – Se il simbolo del Rinascimento era l’artigiano, del Settecento il professionista e del Novecento l’operaio, andiamo verso “lavoratori imprenditivi” caratterizzati da una forte autonomia e capacità decisionale. Due flussi si incontrano: il bisogno di crescita personale del singolo e l’hi-tec che consente di esprimere questa autonomia, di cui il sistema ha bisogno».
Il rischio di perdere il valore sociale del lavoro e di rinchiudersi in casa c’è. Lo sostiene Roberto Crosta, segretario della Camera di commercio di Padova e di Unioncamere Veneto, ma lo ha sostenuto anche il sindaco di Milano Giuseppe Sala nei giorni scorsi. Ma non è questa l’unica trappola da evitare in tema di smart working. «Oggi, viene venduto come strumento di conciliazione tra tempi di lavoro e cura della famiglia, ma lo smart working non è nato per questo», e infatti stanno emergendo i primi studi, come quello promosso da Linkedin tra i suoi utenti, dai quali emerge come lavorare da casa significhi molto spesso lavorare di più, anche perché disturbati. Eppure il digitale oggi non è solo un mondo, ma una galassia, continua Crosta. Basti pensare all’e-commerce: molte piccole imprese commerciali non sapevano nemmeno cosa fosse, oggi grazie alla presenza di piattaforme nate sottotraccia negli anni scorsi, c’è stato un alto tasso di intraprendenza.
A introdurre in Italia il “lavoro agile” o smart working è stata la legge 81 del 2017. Il suo estensore, il giuslavorista Maurizio Del Conte, sostiene che ora stanno venendo meno molti pregiudizi delle imprese su questo strumento. Una ricerca McKinsey condotta su cinquemila lavoratori italiani conferma l’aumento di produzione lavorando da casa del 5-6 per cento in organizzazioni alla prima esperienza, anche del 10 per cento laddove il “rodaggio” era già avvenuto. Oggi si prospetta tuttavia un bivio: mantenere la normativa sul lavoro agile molto leggera e demandare alla contrattazione individuale molti aspetti della materia, oppure al contrario intervenire per normare per esempio i costi sostenuti dal lavoratore (connessione, energia elettrica, eventuali stampe e vitto in caso di buoni pasto). In questo campo le opinioni sono le più diverse.
L’88 per cento dei lavoratori della pubblica amministrazione giudica un successo l’operazione “home working” che hanno messo in campo per l’emergenza Covid-19 e il 93 per cento vorrebbe continuare così. E questo nonostante un terzo dei 4 mila intervistati dal Forum della pubblica amministrazione dichiari di aver aumentato l’orario di lavoro proprio a causa dello smart working. Non solo.
Il 68 per cento di questi lavoratori sostiene di aver utilizzato un computer di sua proprietà per poter lavorare, il 77 per cento il proprio telefono e la quasi totalità anche una connessione internet privata. Due terzi di loro ha anche dichiarato di non aver ricevuto alcuna formazione specifica. Nei giorni scorsi la ministra Dadone ha dichiarato che il lavoro da casa continuerà per la Pa anche oltre il 31 luglio e che a regime il 30 per cento del personale lavorerà stabilmente da remoto.
