Idee | Lettera.DComunque la si possa pensare, chi ha avuto esperienza di vicinanza con persone fragili sa che l’amore per la vita si trova nei posti più impensati
La Giornata per la vita cade ogni anno la prima domenica di febbraio, pochi giorni dopo la giornata della memoria. Ed è una cosa buona. Nel giorno in cui celebriamo la vita siamo ancora sotto l’impressione delle immagini della Shoah che ci ricordano come abbiamo potuto, da Europa dalle radici meravigliosamente cristiane, distruggere vite e intere comunità, nel quasi totale silenzio di chi avrebbe potuto e dovuto ribellarsi anche in nome di Dio. Alzare la voce contro una ideologia che mitizzava la vita perfetta, sana, forte, alta, bionda, occhi azzurri, capelli chiari. E che ha soppresso, una quantità quasi inimmaginabile di vite non considerate degne. Per appartenenza etnica e culturale, per fragilità, per orientamento sessuale.
Questo fatto che noi oggi riconosciamo mostruoso, è sembrato accettabile. Moltissimi non hanno sentito lo scandalo, non sono inciampati e caduti gridando di dolore davanti alle farneticazioni razziali che dividevano l’umanità in superiori e inferiori e per farlo dovevano imbarcarsi in una folle burocrazia della purezza. Per cui serviva il pedigree, come per gli animali di razza. E bisognava stabilire il confine. Eccola la parola. Il confine. Fu un problema quasi insormontabile stabilire, sotto il nazismo, chi fosse ariano. Bisognava non avere nella propria famiglia antenati ebrei da un secolo e mezzo, due secoli per le SS. Le definizioni erano confuse e controverse e un ufficio apposito valutava le posizioni. È questo. Dove sta il confine. Ogni volta che nella storia abbiamo voluto dividere, 2 domenica 6 febbraio 2022 definire, tracciare una linea, alzare un muro nella nostra complicata multiforme imprevedibile sorprendente umanità, abbiamo generato tragedie. Eppure, è chiaro, alcuni confini è inevitabile cercare di individuarli. La legge, ad esempio, mette confini. Fin qui è lecito, oltre no. La morale un tempo era molto più sicura nel mettere confini. Adesso grazie al cielo abbiamo imparato quanto sia difficile tranciare giudizi dal chiuso protetto e ben difeso della nostra condizione di privilegiati pensanti e acculturati. Si parla in punta di piedi, per così dire. Con tutte le sfumature, con tutte le comprensioni possibili.
Qual è il confine della vita degna? Ciascuno di noi ha una sua idea di vita degna. Essere mentalmente sani. Quanto? Poter godere delle cose della vita, almeno un po’. Quanto è grande questo po’? E poi, chiunque di noi abbia esperienza, non accademica teoria, ma esperienza vera di vicinanza, e affetto, e relazione con persone mentalmente fragili, limitate nel fisico, nella vita, comunque la si possa immaginare, per motivi di malattia o di vecchiaia o di condizione oggettiva di restrizioni, sa che l’amore per la vita e il desiderio di vivere si trovano nei posti più impensati.
Una collega mi raccontava di un’amatissima zia in ogni modo inferma, a letto da anni, e bisognosa di assistenza che, dalla sua condizione di ricoverata in una struttura da dove poteva solo, immobile, aspettare visite, le diceva: «Io ogni giorno che posso aprire gli occhi sono contenta. Ogni giorno che mi resta lo prendo come regalo». Non è sempre così. Esistono condizioni ancora più estreme e niente mai, assolutamente mai va strumentalizzato per scagliare il proprio giudizio su quello che gli altri vivono.
“Custodire ogni vita” è il tema di quest’anno. Leggere di seguito i titoli delle 44 giornate che la Chiesa ha celebrato, rivela anche un’evoluzione nella sensibilità cristiana intorno al tema. Dall’attenzione prevalente alla maternità e al generare, allo sguardo via via più largo declinato in rispetto e servizio. Quest’anno il verbo custodire è meravigliosamente biblico e universale. Il custode non si appropria, non si atteggia a padrone, semplicemente ha cura di quanto c’è, del bene che gli viene affidato. Non lo crea e non lo possiede. Non lo manipola. In ogni modo ne ha cura. Non sempre, ma spesso sì, è la cura reciproca a fare la differenza fra la vita che si può vivere e quella che ci sembra insopportabile. Non c’è confine che fermi la cura. Non c’è fragilità che ne sia esclusa. E dal momento che a volte davvero siamo ciechi tanto quanto i cristiani e gli uomini che non hanno impedito la Shoah, abbiamo il grande compito di essere profeti gli uni per gli altri, come Natan per Davide, un re cieco accomodato nel proprio bene stare, nel piacere di continuare a vivere come vuole: «Tu sei quell’uomo!» (2Sam 12,7), un traditore e assassino. Come noi che oggi lasciamo morire i migranti, che non gridiamo ai potenti Vergogna!, a che cosa servite se non a risolvere insieme situazioni complesse, perché la vita è sempre complessa. Che non riusciamo a votare potenti migliori di questi. C’è un segreto nelle nostre vite. È possibile che ai nostri occhi non sia per niente limpido e chiaro il senso di alcune esistenze. Però c’è la grazia del custodire nella cura. Tuttavita è la cura. E c’è la promessa. Il cristiano vive di una promessa. Che nemmeno un passero è dimenticato da Dio. E «Non temete, valete più di molti passeri» (Lc 12, 7). Che dolore non prevale, che il male non è l’ultima parola.
Mariapia Veladianoscrittrice
