Idee
Mose. Progettato per durare cento anni, ora lo scenario è diverso
Quattro volte l’anno era l’ipotesi di utilizzo. Tra ottobre 2023 e marzo 2024 è entrato in funzione 31 volte. Serve riflettere sulla coesistenza uomo-ambiente
Quattro volte l’anno era l’ipotesi di utilizzo. Tra ottobre 2023 e marzo 2024 è entrato in funzione 31 volte. Serve riflettere sulla coesistenza uomo-ambiente
Il Mose, il complesso sistema di dighe mobili, esiste. La prima e forse non scontata notizia è questa: a dieci anni dallo scandalo che travolse Venezia e la politica locale e regionale, l’opera è realtà. La seconda notizia è che funziona anche più di quanto preventivato. «Sono molto soddisfatto e non sono preoccupato per i costi dei sollevamenti, perché i risparmi sono più rilevanti – spiegava il sindaco della città, Luigi Brugnaro, nell’autunno scorso – Ogni acqua alta è distruttiva per la città, e le spese di ripristino sono molto più elevate». Secondo alcune stime, ogni sollevamento delle dighe costerebbe circa 200 mila euro ai quali andrebbero aggiunti i costi, ben più onerosi e ancora non del tutto chiari, delle manutenzioni. «I costi annuali per tenere in funzione il Mose non li conosce nessuno – chiosa Carlo Giupponi, docente ordinario a Ca’ Foscari e autore dello studio Boon and burden: economic performance and future perspectives of the Venice flood protection system – Si sa solo che lo Stato ha stanziato 65 milioni di euro l’anno per qualche anno. Si sapeva dai giornali che i primi sollevamenti del Mose erano costati più di 300 mila euro, perché era fatto “tutto a mano” e poi ci siamo assestati verso 200 mila euro. Però queste cose si dovrebbero trovare nel sito e invece non si trovano». Giupponi non si sbilancia sulle ragioni di tutta la riservatezza che aleggia sui conti dell’infrastruttura, pur sottolineando come questa tendenza riguardi aspetti anche più pratici dei sollevamenti. «Il Mose era stato progettato per due o quattro chiusure l’anno», ricorda il professore, ora però i sollevamenti effettivi sono molti di più: 19 tra novembre 2022 e agosto 2023 e addirittura 31 tra ottobre 2023 e marzo 2024. «Era stato progettato per durare un secolo, allora, se viene chiuso dieci volte di più, cosa vuol dire? Che invece di durare cento anni ne dura dieci?». Si è diffusa, poi, l’idea che oltre i 110 centimetri di marea, a proteggere la città basti l’innalzamento delle dighe. Se però in passato questa soglia poteva rappresentare un’eccezione, oggi è molto più frequente e comporta un sovrannumero di interventi in capo all’infrastruttura. «Se la soglia di innalzamento non fosse di 110 centimetri ma fosse 120 o 130 centimetri, il numero delle chiusure si abbasserebbe in maniera molto significativa» ribadisce Carlo Giupponi e il modo per alzare questa soglia è sotto gli occhi di tutti e consiste nell’alzare letteralmente le rive della città e le pavimentazioni. «Smettiamola, insomma, di parlare sempre e solo del Mose e parliamo della salvaguardia della città e della Laguna, tenendo presente che il Mose c’è ma non durerà per sempre». Di Modulo Sperimentale Elettromeccanico si parla dal 1973 e ora è tempo di interrogarsi sul dopo: «Queste grandi opere vengono viste da una parte consistente dell’opinione pubblica come simbolo del progresso tecnologico, della capacità dell’individuo di plasmare l’ambiente a suo piacimento – riflette Devi Sacchetto, sociologo e docente dell’Università di Padova – Una delle riflessioni dovrebbe essere proprio che gli individui dovrebbero coesistere con l’ambiente, che non vuol dire non trasformarlo, ma essere ben consapevoli che sul lungo periodo l’impatto di queste infrastrutture può essere molto pesante». Una riflessione che implica una presa di consapevolezza dell’essere città e delle trasformazioni sociali e urbanistiche, ma anche una riflessione sul modello economico che vi sottende. Quanto c’è di esogeno rispetto all’economia del Nordest nelle dinamiche di appalti e subappalti che hanno originato il sistema corruttivo? «Gli interessi economici viaggiano sempre su breve periodo. Credo che gli amministratori pubblici dovrebbero provare a mettere in campo invece un quadro di medio periodo o di lungo periodo». Quella che, un tempo, si definiva visione presbite della politica.
Piazza San Marco costantemente sott’acqua. È lo scenario dello studio realizzato dall’Istituto di geofisica e vulcanologia, e pubblicato sulla rivista scientifica Rendiconti Lincei di Springer. Incrociando le statistiche del Centro maree degli ultimi vent’anni con i dati satellitari del Cnr, è possibile prevedere di quanto crescerà il livello delle acque nella laguna nel 2150. Nello scenario peggiore, piazza San Marco sarebbe costantemente sommersa da 70 centimetri d’acqua. Secondo lo studio, se il mar Mediterraneo dal 1900 è cresciuto di 18 centimetri, la laguna di Venezia si è innalzata di 35 centimetri (con una media di 3,24 millimetri nell’arco di tempo che va dal 1993 al 2020).
L o sanno tutti: il primo segnale che le proprie frequentazioni veneziane da sporadiche si sono fatte abituali sta nella conoscenza di quanto ogni calle, campiello e luogo di destinazione sia più o meno alto sul medio mare. L’altimetria in Laguna si misura in centimetri usando come base i dati del 1897 e come riferimento la Punta della Salute: quando il livello supera gli 80 centimetri è “acqua alta”, ma non tutta Venezia finisce sott’acqua, anzi, secondo i dati del 2009 meno del 2 per cento della città si trovava sotto i 90 centimetri e circa l’8,8 per cento sotto i 110. All’acqua alta hanno dato una mano anche fenomeni come la subsidenza – il progressivo abbassamento del suolo – e l’eustatismo – l’innalzamento o l’abbassamento del mare – che nel Novecento hanno aumentato di ben 23 centimetri il livello del mare in città. Di questo aumento, 13 centimetri derivano da cause antropiche. Acqua alta, però, non significa disagi solo per i pedoni: «La viabilità acquea è condizionata nel centro storico – scrivevano Leonardo Boato, Paolo Canestrelli, Luisa Facchin e Rudj Todaro nel pamphlet Venezia Altimetria del 2009 – poiché il rialzo di marea riduce progressivamente la luce tra ponti e superficie acquea, fino a interdire la navigazione nei canali interni con pregiudizio per la mobilità di mezzi privati e pubblici, con conseguenti ripercussioni economiche e di sicurezza. Per quest’ultimo aspetto può essere estremamente difficile gestire una emergenza che richieda l’intervento di mezzi acquei». E a Venezia ogni emergenza, che sia un incendio o un malore, richiedono l’intervento di un’imbarcazione. La risposta a questa problematica è rappresentata solo parzialmente dal Mose e dalle sue dighe mobili e molto da quel piano, iniziato negli anni Novanta e poi continuato a singhiozzo, che prevede il rialzo delle rive e delle pavimentazioni dove talvolta basterebbero pochi centimetri per mettere in salvo case ed esercizi commerciali al pari dello scavo dei rii, i canali interni alla città lagunare. Il braccio operativo del Comune di Venezia per questo tipo di interventi si chiama Insula spa e interviene tanto nello scavo dei canali quanto nella ricostruzione delle sponde dei palazzi erosi dal moto ondoso – altro annoso problema – fino alla ricostruzione dei ponti e al restauro della rete fognaria, dettaglio da non sottovalutare in una città d’acqua. L’azienda ha poi il compito di rialzare la pavimentazione delle strade e delle piazze portandola, dove possibile, a quota 120 centimetri. Dove questo non basta, come nel caso della Basilica di San Marco che si trova in uno dei punti più bassi sul medio mare a circa 85 centimetri, si interviene in modo più radicale: 130 metri di balaustra in cristallo alta un metro e 30 centimetri cingono la basilica, mantenendola all’asciutto. Un intervento provvisorio e costato 5,3 milioni di euro: tanti, ma comunque meno dei 50 milioni che servirebbero per mettere in sicurezza l’intera insula di San Marco.
Entro il 2026 il Mose di Venezia muoverà le sue barriere grazie al sistema di collegamento in fibra ottica con Open Fiber. Il contratto prevede che progetto e realizzazione vengano effettuati in 18 mesi, per un costo di 6,1 milioni di euro.
Ultimato nell’estate del 2012, il “baby Mose” di Chioggia consiste in due paratoie mobili poste alle estremità del canal Vena che vengono sollevate proteggendo il centro di Chioggia dalle acque alte più frequenti fino a 130 centimetri.