Idee
Un esercizio di pura umanità. Ricchezze e valori intimi. Il senso della vita: restituire
Dare ciò che siamo, ciò che abbiamo costruito, senza privarcene, significa accettarsi, donarsi e riconoscere l’altro nella sua dignità
IdeeDare ciò che siamo, ciò che abbiamo costruito, senza privarcene, significa accettarsi, donarsi e riconoscere l’altro nella sua dignità
S e io dovessi rispondere in questo momento della mia vita alla domanda “qual è il senso della tua vita?” non avrei dubbi. Direi: restituire agli altri quello che dalla vita ho avuto e io dalla mia vita ho saputo produrre. Restituire è sostanzialmente “dare” all’altro. Che cosa? Tutto quello che di me stesso io riconosco come ricchezza e valore. Senza tuttavia privarmene o darlo in eredità testamentaria. Non è quella della restituzione una questione “a babbo morto”, come dicono i toscani. Prima di tutto vedrei il mio accettare di “essere chi sono” senza ammanchi e senza aggiunte. Il mio voler sanamente bene a me stesso. Perché senza il mio onesto e umile sentirmi soddisfatto di quello che in questa vita ho fatto (limiti, debolezze, errori compresi) non potrei lasciare niente a nessuno. Restituirei quel poco di “esempio” che posso rappresentare per avere saputo amare la donna, soprattutto stimarla e sentirla cara come valore diamantino. Per aver detto «Ti voglio bene», fino a… spingermi, magari, al «Ti amo!». La parola è vita. Poi la mia restituzione la sento nel “dire” di speranza di futuro a chi mi gira attorno, figli, nipoti, ma anche amici, colleghi (nel mio caso anche a pazienti). Anche qui la parola è vita. Restituirei all’altro quello che è il mio pensiero di rispetto per il lavoro, di mente, di cuore e di mano. Il valore della riconoscenza a chi ti ha fatto del bene e dell’obbedienza. Perché li ritengo strumenti cardine per costruire un mondo interno ed esterno ordinato. Restituirei il mio positivismo nel “leggere” questo mondo che pur sta andando sempre più dentro a una notte buia. Restituirei l’insegnamento di mio padre e di mia madre al rispetto degli altri che è praticabile solo dopo che si è riconosciuta la diversità dell’altro e la sua dignità. Cercherei di “insegnare” la differenza che esiste tra il “mio modo” di vedere l’altro e l’altro com’è nella “sua realtà“ («Ciascun dal proprio cor l’altrui misura», Dante). Restituirei poi la cura e l’attenzione a vedermi nel bambino che ero, anche adesso che sono vecchio. Restituirei la mia storia intera a tutti quelli che la vogliono leggere e trarne buon proposito. Restituirei l’humanitas che mi hanno insegnato i miei professori (quelli capaci di farlo), i preti del patronato, i miei allenatori di calcio. Restituirei l’accettazione del mio limite e anche della mia contraddizione. Solo così si può capire quella dell’altro e il senso della “sua” vita. Scrive il filosofo Salvatore Natoli che il dare agli altri, specie il dare dei giovani nell’attività di volontariato, «vuol dire riconoscere il prossimo nella sua libertà». È il prossimo la nostra ricchezza, l’altro che arriva da lontano e che cerca libertà economica ma soprattutto libertà di vita. I nostri giovani sanno accogliere questa domanda e spesso sanno fornire la risposta. Chiudo con questo: la restituzione, il dare all’altro non è legata all’anagrafe (chi più tempo ha avuto dalla vita più deve restituire) ma è un pensiero che muove a battere il cuore di ognuno. Giovani cuori compresi. Lo vedrei tutto qui il senso della vita.
Guido Savio Filosofo, Psicologo e Psicoterapeuta