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Francesco Simoni, medico a cinque anni dal Covid. “Venivamo chiamati eroi”
Francesco Simoni Medico internista, lavorava in Medicina generale degli Ospedali riuniti Padova Sud di Schiavonia quando è scoppiato il Covid
IdeeFrancesco Simoni Medico internista, lavorava in Medicina generale degli Ospedali riuniti Padova Sud di Schiavonia quando è scoppiato il Covid
Era il 21 febbraio 2020 e all’ospedale di Schiavonia moriva purtroppo la prima persona a causa del Covid-19, il pensionato Adriano Trevisan. In quelle ore l’intera struttura viene chiusa e isolata. Sono giorni di trambusto con le forze dell’ordine che presidiano gli ingressi e sorvegliano le strade. Tra i medici che si trovano a dover fare i conti con il nuovo virus arrivato da lontano c’è Francesco Simoni, giovane internista padovano, in servizio alla Medicina generale degli Ospedali riuniti Padova Sud di Schiavonia. «Ricordo bene quel periodo, i primissimi giorni di diffusione del virus ero in turno di domenica – racconta Simoni, oggi quarantaduenne – Chiamai subito mia moglie e le dissi: “Forse è il caso che io non torni a casa perché non sappiamo ancora se i pazienti che stiamo seguendo siano positivi”. I due giorni di distanza ipotizzati sono diventati poi tre mesi! Fu una lunga separazione, fino a dopo Pasqua. La paura di trasmettere il contagio ai propri cari era comune a tantissimi miei colleghi e chi aveva la possibilità di stare in un luogo diverso da casa sceglieva questa opzione. Io ho ospitato alcune settimane un collega che ci aveva raggiunto con altri medici dagli ospedali di Camposampiero e Cittadella, per aiutarci: è stata un’esperienza singolare in quel periodo, in cui cercavamo di darci una mano». Sono i mesi in cui tutto il mondo vorrebbe stringersi attorno a quei camici bianchi – medici, infermieri, operatori sanitari – in cui è riposta la fiducia per contrastare il virus: donne e uomini che restano accanto ai malati, esponendosi al contagio, nascosti dietro visori, tute, mascherine. «In quei mesi abbiamo sentito il sostegno di tante persone, una grande solidarietà, venivamo chiamati “eroi” – continua il medico – Allo stesso tempo era presente in noi un senso di impotenza rispetto all’isolamento che si creava tra i pazienti che erano dentro le mura ospedaliere e i familiari che si trovavano fuori, in particolare sulle persone anziane questo stato impattava in modo devastante. È così che a una collega è venuto in mente di raccogliere fondi per acquistare degli strumenti che favorissero il contatto e permettessero di dialogare. Allora ero presidente diocesano di Azione cattolica e proprio grazie a questa associazione abbiamo reso concreta l’idea della collega, riuscendo a distribuire moltissimi tablet nei Covid hospital del Triveneto e in alcune case di riposo. L’iniziativa ha rappresentato un modo tangibile per restare accanto alle persone». Cosa resta oggi di quegli eroi, perché la sensazione è che tutto sia passato lasciandoci indenni, freddi? «Credo che con l’esperienza della pandemia sia scattato in molti un effetto rimozione, come avviene nei grandi traumi: si preferisce dimenticare, ed è umano, anche se non necessariamente sano – conclude il dottor Simoni – Ci siamo scordati velocemente della solidarietà, del sentirci parte di un’unica umanità, della fratellanza che è emersa in quel dramma. Anche professionalmente si era creato un dialogo e un confronto quotidiani tra specialisti di diverse branche su una malattia di cui si sapeva poco o niente, una comunità in ricerca di una via d’uscita durante il lavoro quotidiano in corsia; quando si è visto che si iniziava a uscire dalla fase più critica, ognuno è tornato a occuparsi del proprio ambito. Allo stesso tempo penso che qualcosa abbiamo imparato da questa esperienza cioè l’importanza dei legami, delle connessioni, dello stare insieme in presenza».