Mosaico«Un movimento di trasformazione sociale profondamente radicato nella comunità locale». Questa la fotografia del Saint Martin oggi, scattata dall’attuale direttore, Maurice Muthiga.
Che sfide affronta oggi il Saint Martin? «La riduzione dei finanziamenti da parte dei donatori istituzionali per i progetti a lungo termine. Ma anche la debolezza dei sistemi di welfare introdotti dal governo nazionale: ad esempio, l’assicurazione sanitaria sociale disponibile non copre interamente le spese mediche per i nostri beneficiari. I farmaci, quindi, ciascuno deve pagarli di tasca propria. E poi c’è l’elevato costo della vita che ha aumentato la vulnerabilità di poveri ed emarginati e il loro diritto a cibo, salute, istruzione e alloggio adeguati. Senza contare l’aumento dei casi di malattie mentali e il cambiamento climatico che ha influito negativamente sui mezzi di sussistenza delle persone. Cresce, inoltre, il bisogno smisurato dei nostri servizi da parte della comunità rispetto al numero ridotto di personale a causa della riduzione dei finanziamenti».
In che contesto sociale sta operando? «In una semplice comunità africana con un mix di culture tradizionali e moderne. C’è una graduale ridefinizione della società da comunità tradizionale a moderna. Questo comporta l’instaurarsi di una “comunità di interesse” rispetto a quelle geografiche convenzionali. L’alto livello di povertà ha reso inefficaci alcuni dei sistemi di supporto tradizionali, ad esempio le persone sono sempre più preoccupate di soddisfare i propri bisogni piuttosto che quelli degli altri. È presente lo stigma per i gruppi vulnerabili; c’è la percezione che alcune malattie mentali siano il risultato di un mancato adempimento degli obblighi tradizionali, come il non pagamento della dote dei genitori. Il susseguirsi di anni di siccità ha aumentato il numero di famiglie vulnerabili dal punto di vista alimentare. Ciò ha comportato, ad esempio, l’aumento dei bambini per strada, della violenza di genere, delle gravidanze adolescenziali e dei conflitti provocati dalle risorse».
Quali sono le potenzialità di questo progetto che ha fatto della “comunità” il suo stile di vita? «È aumentato il livello di partecipazione e di appropriazione del progetto da parte della comunità locale, ad esempio riceviamo regolarmente donazioni settimanali di verdure fresche dal mercato locale, c’è un coinvolgimento attivo dei membri della comunità nel progetto sia a livello locale come volontari, sia a livello professionale nei comitati di gestione dei programmi e nel consiglio di amministrazione. L’impegno della comunità dà un senso di speranza che riduce lo stigma. È alto il potenziale di espansione e replica del progetto in contesti diversi».
Che fatiche affrontate? «Ci sono quelle quotidiane come l’arrivo, ogni giorno, di persone con esigenze che non rientrano nelle nostre aree d’intervento. E poi, a livello più ampio, ci solo altre emergenze: ciclica perdita di motivazione e fatica tra il personale e i volontari di lungo periodo; l’immagine di organizzazione caritatevole/ religiosa che crea dipendenza; lo sviluppo di piani a lungo termine per i programmi con l’incertezza dei finanziamenti; avere tutti i programmi sufficientemente finanziati; mantenere lo slancio della comunità in una società in evoluzione; nuove sfide sociali con una prospettiva globale, come l’abbandono dei figli alla ricerca di lavoro all’estero». (P. P.)
