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Intervista a Toni Capuozzo. «Nessuna guerra finisce com’era stata progettata»
Sarajevo raccontata da inviato, l’affetto e l’intraprendenza per il piccolo Kemal, lo sguardo in un conflitto etnico
FattiSarajevo raccontata da inviato, l’affetto e l’intraprendenza per il piccolo Kemal, lo sguardo in un conflitto etnico
Sarajevo, “viale dei cecchini”. Una coppia di anziani raccoglie erbe nell’aiuola. «Con il cameraman Igor fermiamo l’auto per riprenderli. Poi penso che abbiamo un po’ di patate. E gliele porto. Lui ringrazia e aggiunge: “Fate vedere come siamo costretti a vivere”» racconta Toni Capuozzo, 73 anni, che ha appena pubblicato Balcania. L’ultima guerra europea e firmato il documentario “1992-2022 ritorno all’inferno” che sarà trasmesso il 5 aprile da Focus.
Giornalismo d’altri tempi?«La generazione del giornalismo della Bosnia è ormai sul viale del tramonto. Ma credo si possa dire che Sarajevo ha segnato il modo di fare il mestiere, come il Vietnam con quella precedente. È stata la guerra in Europa con target civili. Pensavamo fosse l’ultimo orrore del secolo scorso, ma ora siamo dentro la guerra di nuovo. Con i civili sempre nel mezzo, nella terra di nessuno: danni collaterali, bersagliati, le vere grandi vittime. Sarajevo fu una città assediata davvero: ridotta alla fame, senza elettricità e gas. Un conflitto sordido, etnico, una guerra fra vicini di casa come nelle faide della ‘ndrangheta».
Ma c’è anche la storia di Kemal… Capuozzo, infilato sotto il giubbotto di pelle, giusto? «Allora aveva 9 mesi, senza madre e senza una gamba. Adesso ha 30 anni e sta bene, dopo il cancro con quattro operazioni. Ad Aviano lo hanno preso per i capelli. Nella Sarajevo assediata bisognava fare i conti con la miope burocrazia dei salvataggi. L’Onu evacuava solo chi era in pericolo di vita e Kemal era… in salute. Ho agito d’istinto, perché a furia di raccontare ti accorgi che devi anche fare qualcosa. È stato con noi quattro anni. E non auguro a nessuno il distacco previsto dalla legge. L’abbiamo riportato a Sarajevo in volo, con mia moglie e mia figlia. E fino ai 18 anni non sono mai mancato al suo compleanno. Posso dire di essere felice nel vedere il mio secondo figlio avere un rapporto da fratelli con Kemal».
Sarajevo fu difesa da Jovan Divjak, scomparso l’anno scorso. Un generale serbo e non solo.«Grande persona, capace di andare oltre le appartenenze e scavalcare recinti, ideologie, etnie. Un uomo che credeva nel futuro: ha svolto un prezioso lavoro di educazione nelle scuole. Nei Balcani la memoria è una condanna a ripetere l’odio sepolto da secoli. Jovan si è speso con le nuove generazioni bosniache non per l’oblio, ma per il dialogo e la speranza».
Sperava anche la “marcia di 500” e invece sul ponte Vrbanja hanno ucciso Gabriele Moreno Locatelli.«Purtroppo, bisogna chiedersi il senso di quel sacrificio. Fu inutile, non salvò nessuno. Poi quando torno a Sarajevo mi fermo davanti alla targa e so quant’era una persona generosa. Ma allora c’era l’illusione che nessuno spara ai disarmati. Invece la buona volontà e l’innocenza non abbassano le armi. Alla rete pacifista bisogna essere grati per il capillare lavoro con la corrispondenza fra profughi e familiari assediati. Apparentemente meno eroica, ma molto più utile».
Cecchini spietati e “cacciatori” all’opera. Cosa significò quest’aspetto dell’assedio?«La migliore “contro cecchino” era una donna, atleta olimpionica di tiro che credo ora viva in Svezia. Il cecchino si vede, in un lampo, solo mentre spara. I tiratori serbi non hanno ucciso tanto, ma hanno tenuto sotto scacco la città. Potere di vita e di morte. Con la protervia di chi sa benissimo che un ferito è più ingombrante, va soccorso, occupa un posto letto e diventa il manifesto vivente della sconfitta. E con il massimo dell’ingiuria morale e della crudeltà: 60 bambini presi di mira e ammazzati, perché è una morte che uccide anche i genitori. Per i cecchini vale l’immagine di Dio con l’occhio onnipotente dentro il triangolo indagatore. Il contrario dell’angelo custode che sta alle spalle, veglia e sostiene».
Capitolo islam. In Bosnia le parti erano inverse rispetto al 2001.«Se la storia fosse un Lego, dieci anni dopo non esisterebbe che gli Usa di Clinton bombardano i serbi per difendere Sarajevo. Negli anni Novanta era un islam che faceva parte della storia europea. Se già Alija Izetbegović non era il Zelensky di Sarajevo per la sua visione ispirata dai Fratelli musulmani, oggi in Bosnia sono arrivati i marmi arabi nelle nuove moschee».
Un ultimo pensiero, a distanza di 30 anni?«L’eccezionale resistenza di Sarajevo per tornare a essere quel che era stata. Ma i sogni spesso restano tali e le cicatrici non se ne vanno più. Nessuna guerra finisce come era stata progettata, perché si rivela un’avventura incauta. Bisognerebbe ricordarlo a chi le scatena».