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Sudan, forse c’è una svolta. I militari sono entrati a Wad Madani
I militari sono entrati a Wad Madani, nelle mani delle Forze di supporto rapido. Ora qualcosa potrebbe cambiare nel conflitto interno iniziato nell’aprile 2023
FattiI militari sono entrati a Wad Madani, nelle mani delle Forze di supporto rapido. Ora qualcosa potrebbe cambiare nel conflitto interno iniziato nell’aprile 2023
Forse siamo alla vigilia di una svolta nella guerra civile in Sudan, uno dei conflitti più complessi e dimenticati del nostro tempo. La riconquista di Wad Madani, capitale dello Stato interno di Gezira, da parte dell’esercito sudanese potrebbe segnare un cambio di passo nel contrasto ai ribelli, ma il prezzo umano resta altissimo. Padre Diego Dalle Carbonare, superiore provinciale dei missionari comboniani in Egitto e Sudan, originario della Diocesi di Padova, dal Cairo racconta: «La guerra è iniziata il 15 aprile 2023 e ha visto due principali protagonisti: l’esercito regolare, guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, e le Forze di supporto rapido (Rsf), un gruppo paramilitare». Tuttavia, la realtà è più frammentata, con almeno altri cinque o sei gruppi armati attivi in diverse regioni del Paese. Lo scontro si concentra nella capitale Khartoum, nelle città del Darfur e in altre aree strategiche come Wad Madani. «È un conflitto vastissimo, che interessa un territorio grande quasi come l’Italia». L’ultima notizia di rilievo è la riconquista di Wad Madani da parte dell’esercito. «È un successo strategico importante, ma il costo umano è altissimo. Ogni avanzamento porta con sé un’enorme distruzione e un numero incalcolabile di vittime», racconta padre Diego. Eppure, nonostante questi sviluppi, mancano completamente tentativi di dialogo. Gli ultimi negoziati mediati dall’Arabia Saudita risalgono al luglio 2023. Da allora, solo silenzio. «La speranza è che l’esercito riesca a ristabilire un minimo di ordine in alcune zone del Paese. Ma in Darfur e nel Kordofan la guerra continuerà per anni», aggiunge. La crisi umanitaria è senza precedenti. «Si parla di almeno 11 milioni di sfollati, di cui due milioni hanno lasciato il Paese. Molti si sono rifugiati in Egitto, Sud Sudan e Ciad. Ma i numeri reali sono probabilmente molto più alti», sottolinea. Nelle città dove lo scontro è più forte sono riapparse malattie come colera e polio, aggravate dalla mancanza di acqua potabile e servizi sanitari. La Chiesa cattolica, che contava su una presenza significativa a Khartoum e El Obeid, ha visto ridurre drasticamente il numero di sacerdoti e religiosi. «Nella Diocesi di Khartoum, da 33 preti diocesani siamo scesi a 8 o 9, e i religiosi sono passati da una cinquantina a meno di 15. La nostra presenza è ridotta al minimo». A Khartoum, una città che prima della guerra contava 15 milioni di abitanti, la situazione è devastante. «Quando la guerra è cominciata, abbiamo provato a restare nelle nostre comunità. Ma era insostenibile: mancava l’acqua, mancava la corrente, e i ribelli entravano nelle case. Alla fine, siam dovuti andare via. Non è stata una scelta facile, ma non c’era alternativa. Le scuole che non sono state distrutte sono state saccheggiate. Abbiamo notizie di banchi scolastici usati come legna da ardere, visto che manca il carbone per cucinare. La ricostruzione, quando verrà, sarà una sfida enorme».
Anche il Sudan è uno degli scenari della “terza guerra mondiale a pezzi” denunciata da papa Francesco. Non è un mistero – secondo le ricostruzioni degli esperti – che gli atti sanguinosi dei ribelli, compiuti con armi europee, siano finanziati dagli Emirati Arabi al fine di controllare le ricche risorse minerarie sudanesi. L’esercito regolare – di stampo islamista – è sostenuto invece dall’Arabia Saudita. La Russia, inizialmente vicina ai ribelli, dopo la decapitazione del gruppo dei mercenari della Wagner e l’assassinio del suo leader Prigožin, ha cambiato schieramento. Non aiutano i silenzi e le connivenze degli stati europei, che non molti anni fa hanno appoggiato e finanziato proprio la formazione dei Rapid Support Forces di Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti. Per trovare motivi di speranza bisogna guardare ai piccoli gesti. A Port Sudan, sul Mar Rosso, dove la guerra non è arrivata, i missionari comboniani sono riusciti infatti a trasferire il Comboni College da Khartoum. «Offriamo lezioni online anche ai giovani nei campi profughi. È un modo per dare un futuro a chi non ha nulla», racconta padre Diego. A Kosti, un’altra comunità comboniana, una delle quattro scuole è rimasta aperta, garantendo l’istruzione primaria ai bambini. «La nostra missione è restare accanto alla gente – spiega – Offriamo aiuti economici, cibo e medicine a chi fugge. Ma ci prepariamo anche al giorno in cui la guerra finirà, per ricostruire case, scuole e chiese. Sarà un lungo cammino di guarigione, non solo materiale, ma anche spirituale». Padre Diego lancia il suo appello: «Non dimentichiamoci del Sudan. Questa è una guerra dimenticata, ma le vite che spezza meritano di essere raccontate e difese. Ciò che stiamo vivendo è una crisi epocale». I missionari comboniani continuano a lavorare nei limiti delle loro possibilità, cercando di garantire il minimo indispensabile a chi ha perso tutto. C’è chi prova a ripartire: «Molti dei nostri fedeli sono tornati in Sud Sudan. Parliamo di famiglie che avevano già sofferto enormemente per le guerre precedenti e ora sono costrette a ricominciare da zero, spesso scappati con nient’altro che i vestiti che avevano addosso. La comunità cristiana del Nord si è decimata». Il futuro del Sudan rimane incerto, ma la Chiesa non si arrende. «Quando tutto questo finirà, ci troveremo di fronte a una popolazione distrutta. Non parlo solo di case o infrastrutture, ma di vite spezzate. Ogni famiglia ha perso qualcuno, ogni bambino porta nel cuore ferite invisibili. Fra i traumatizzati ci sono anche i preti stessi: anche noi dovremo fare un cammino di guarigione e dovremo essere in grado di reinventarci, di capire chi siamo e che cosa stiamo facendo». Padre Diego Dalle Carbonare conclude con un ultimo appello: «Continuiamo a pregare e a lavorare per la pace. Non possiamo perdere la speranza».
Il 7 gennaio gli Stati Uniti hanno formalmente accusato l’Rsf di aver commesso un genocidio in Sudan e imposto delle sanzioni contro Dagalo. Una settimana dopo, il Governo americano ha imposto le stesse sanzioni anche contro il capo della giunta militare al potere, il generale Abdel Fattah al-Burhan. «L’insieme delle sanzioni rispecchia l’opinione degli Stati Uniti che nessuno dei due uomini sia adatto a governare il Sudan al termine del conflitto» ha affermato in un comunicato il segretario di stato statunitense Antony Blinken, auspicando una «transizione democratica».
Andrea Canton