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Rubriche | I Blog/Chiesa & Chiose - don Cesare Contarini

domenica 3 Novembre 2019

Chi è il prete? Professionista o servitore gioioso?

Chiese e chiose. Fare il prete, oggi, è sempre più difficile. I modelli di ministero sacerdotale del passato chiedono una profonda rivisitazione

Cesare Contarini

Ho riflettuto per giorni sulla frase di quell’amico, di età avanzata, che mi ha detto: «Mi pare che i preti stiano diventando professionisti». Intendendo, senza polemica ma con amarezza, non la qualità delle prestazioni ma la minore disponibilità verso le persone, il misurare gli “orari di servizio”. «Neanche un prete per chiacchierar», cantava Celentano quarant’anni fa, e ora siamo ben più rari.

Negli ultimi decenni il mondo è profondamente cambiato e anche fare il prete è diventato più difficile. Non servono molte analisi dettagliate, bastano alcuni titoli evocativi: numeri in calo, dei fedeli e dei preti; scarsa rilevanza culturale; sovraffollamento di impegni; burn-out (o simili fenomeni) nella mezza età… È scomparso, o lascia pochi angoli, quel mondo rassicurante nel quale per secoli il clero tridentino si era trovato a proprio agio, anzi “coccolato”. Cresciuto dentro una tradizione secolare, la cui inerzia perdura nella forma standardizzata del seminario, il prete si confronta con un mondo che appare spesso indifferente, impermeabile più che ostile. Cristiani in un contesto post-cristiano, come? Per quali strade? Ci si sente perfettamente interpretati da Geremia: «Anche il profeta e il sacerdote si aggirano per la regione senza comprendere» (14,18)

Qualcuno, ispirandosi al santo di Norcia, propone l’“opzione Benedetto”: estraniarsi quanto più possibile dalla “decadente” modernità, per costruire spazi protetti dove vivere la fede in famiglia e in piccole comunità omogenee. Quasi delle isole o delle cittadelle, meglio se organizzate attorno a poli spirituali, in cui vivere formando figli e nipoti. Per altri questa opzione aventiniana tradisce l’essere credenti: il messaggio cristiano, se rinuncia a stare dentro la storia, a farsi sale e lievito, perde se stesso.

Si percepisce ogni tanto la tentazione di restare chiusi nel cenacolo anche dopo l’effusione dello Spirito, quasi a tenersi la Pentecoste per sé, immaginando possibile una vita nuova e una santità che non si complichi nel confronto con il “mondo”. Ma sappiamo che la Pentecoste non ripara l’antica Babele restituendo a tutti la medesima lingua, abilita invece a farsi comprendere nei diversi linguaggi, cioè nei diversi modi di comprendere la vita e il mondo.

I modelli di ministero sacerdotale del passato chiedono dunque una profonda rivisitazione per apparire proponibili a comunità e società che chiedono “altro” (un altro stile, almeno), ai giovani eventualmente interessati a donare la vita per il vangelo nella Chiesa. Senza perderne né la dimensione teologica ed ecclesiale né la profondità spirituale, occorre riscriverli. Al riguardo, mi piace condividere alcune suggestioni emerse da una “tre giorni del clero” dell’arcidiocesi di Bologna (quanta nostalgia di appuntamenti simili…) nel settembre 2018:

Il pastore: educa e viene educato; nel vagare di un’epoca incerta e segnata dal cambiamento continuo ha una meta da indicare, che sa di non poter raggiungere in solitaria. Ed è consapevole delle pecore smarrite da cercare e portare in braccio: ce ne sono ovunque, non una soltanto…

Il missionario: porta e insieme riceve; e in missione va non con “bastimenti carichi di…”, ma con lo zaino alleggerito e con cuore e occhi aperti alle differenze, a cogliere i segni di Dio disseminati ovunque.

Il profeta: accetta l’incomprensione e perfino il rifiuto, non dall’alto di una autoreferenziale superiorità morale, ma nell’umile (e gustata) scoperta di essere custode di una “differenza” contrassegnata da un oltre, un traguardo meraviglioso.

Il sacerdote: vive l’intera giornata, tutta l’esistenza, non solo i gesti e i riti della dimensione liturgica, come “sacrificio spirituale”, fino a perdere la propria vita nel dono feriale di sé.Su questi percorsi interiori, innestati in una vera vita battesimale che sintonizza in profondità con il popolo (e ogni figlio) di Dio, cade ogni tentazione di separatezza o di servizio a ore. A stretto contatto con la gente che sente “propria” (famiglia), dentro l’esercizio sapiente del ministero, il prete può maturare la possibilità di una santità gioiosa. Gaudete et exsultate vale anche per i ministri in sacris, no?

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