Chiesa
“Non possiamo né dobbiamo rassegnarci a sancire la morte di una parte significativa della Nazione. Ne sortirebbe un danno per tutti. Noi crediamo che, accanto alle criticità, che pure ci sono, le Aree interne possono vantare grosse potenzialità, che devono però essere valorizzate in un progetto organico che richiede tempi anche lunghi. Una sfida che la politica deve saper cogliere se non vuole assistere al proprio fallimento. Noi siamo già presenti sul campo e siamo disponibili a offrire il nostro contributo”. Lo dice l’arcivescovo di Benevento, mons. Felice Accrocca, promotore dei convegni sulle Aree interne, spiegando che la Lettera aperta al Governo e al Parlamento, diffusa al termine dell’Incontro dei vescovi delle Aree interne, a Benevento, vuole essere un contributo per assumere “uno sguardo diverso” verso questa vasta area del territorio nazionale. Al Sir l’arcivescovo offre un bilancio della due giorni e anche del cammino, avviato da anni. Già nel 2019, infatti, i vescovi della metropolia beneventana accendevano l’attenzione sulle Aree interne con il documento “Mezzanotte del Mezzogiorno? Lettera agli amministratori”; dal 2021, poi, ogni anno s’incontrano a Benevento i vescovi delle Aree interne, su iniziativa proprio di mons. Accrocca.
Eccellenza, in questo cammino avviato anni fa, quali sono i passi avanti che sono stati compiuti, secondo lei?
Diciamo che, in generale, c’è una rinnovata attenzione al problema. Quando cominciammo a parlare noi di Aree interne non ne parlava nessuno, adesso ne parlano quasi tutti. Il fatto che ne parlano tutti, però, non significa che, automaticamente, si facciano passi avanti, ma perlomeno si tiene desta l’attenzione su questa parte del Paese, si avverte che il problema c’è, diversamente da prima. Questo è sicuramente un progresso. È importante anche la consapevolezza, tra noi vescovi, che bisogna lavorare per una pastorale delle Aree interne. Quest’anno ci siamo confrontati sulle buone prassi che ci sono o si stanno avviando e mi sembra una scelta vincente: c’è stata una partecipazione viva, attenta, intensa dei vescovi.
Naturalmente, le situazioni da diocesi a diocesi sono differenti e quello che va bene per un territorio potrebbe non andare bene per un altro, ma già il fatto di cominciare ad approfondire, di prendere coscienza che dobbiamo cambiare anche i modelli ecclesiologici e pastorali, questo mi sembra un passo avanti.
La difficoltà, quando ci si deve muovere, è proprio quella di capire che bisogna farlo. Non sappiamo ancora bene come, ma fondamentale è capire che bisogna farlo.
Anche se le prassi devono essere adattate ai singoli territori, ci sono degli elementi comuni da poter offrire dal punto di vista pastorale a chi vive nelle Aree interne?
Ribadendo che non ci può essere un vestito in serie, ma che il vestito va adattato alle singole taglie, il discorso generale è quello di
una nuova ecclesiologia che punti sulla valorizzazione ministeriale di tutti i battezzati
e non solo di una parte minima di essi, quali sono i ministri ordinati, il clero, le consacrate e i consacrati, quindi una nuova ecclesiologia battesimale. Questo è chiaro, ma il problema è antico, purtroppo.
Si tratta di riprendere il Concilio vaticano II in mano e tradurlo in pratica, naturalmente in contesti culturali quali sono quelli di oggi.
E questo credo è una consapevolezza che stiamo sempre più assumendo. D’altronde, emerge anche la difficoltà a volte di adottare questa prospettiva, perché ci sono delle resistenze. Non possiamo neppure dire di valorizzare il laicato perché noi non ci siamo più, perché sarebbe un discorso strumentale. Questa consapevolezza sta prendendo sempre più piede. È chiaro che devono avviarsi anche nuovi percorsi formativi: bisogna puntare molto sulla formazione, che però deve procedere parallelamente a quanto si vive, bisogna osare e nel frattempo riflettere anche su ciò che si fa, che si sperimenta concretamente.
Quali saranno i prossimi passi in questo senso?
Una esigenza che è stata fatta presente da parte di tutti è che adesso anche la Cei nel suo complesso prenda un po’ in mano la questione,
forse un documento Cei sulla questione, un indirizzo che raccolga il lavoro di questi anni, in modo che la Cei stessa assuma questo discorso nella sua completezza. Già di fatto la Cei è sempre stata coinvolta, come dimostra il fatto che il presidente in questi ultimi quattro anni è sempre stato presente alla due giorni. Ma è anche vero che adesso forse serve anche ufficialmente un passo ulteriore in questo senso.
Come vescovi, vi siete dati appuntamento all’anno prossimo?
Certo, ma questo ormai è scontato.
Passando al fronte politico e sociale, quanto preoccupa i vescovi il Piano strategico nazionale delle Aree interne?
Siamo molto preoccupati, come dimostra la nostra Lettera aperta, che è stata sottoscritta da quasi due terzi dell’episcopato, una adesione veramente massiccia. E tenga conto che il documento ha cominciato a girare il 14 agosto, quindi quando molti erano fuori. Inoltre, il testo, pubblicato sul sito chiesacattolica.it, è aperto a nuove adesioni e altri potrebbero aggiungersi.
È una preoccupazione, una presa di posizione quasi corale.
Ma perché secondo lei non si riesce ad avere, politicamente, uno sguardo diverso sulle Aree interne? È vero che sono in grande sofferenza, però si potrebbe scoprire anche la ricchezza che hanno da offrire.
Le offro una considerazione del tutto personale. Da un lato, mi sembra che l’alta finanza faciliti il discorso della metropolizzazione della popolazione; e l’alta finanza ha una grande influenza. La popolazione metropolitana è più anonima e, quindi, è anche meno partecipativa e più manipolabile, rispetto a chi vive in quei luoghi dove il contesto comunitario è più forte. Dall’altro lato,
la politica fatica a progettare in tempi medio-lunghi,
perché i risultati di un piano si vedono a lungo termine, anche tra dieci-venti anni, quindi potrebbero essere altri, anche gli avversari politicamente parlando, a raccoglierne i frutti. La politica ormai pensa nell’immediato, sotto l’influenza del sondaggio. Si fa un’affermazione, magari una sparata, si vede l’effetto con un sondaggio e magari si aggiusta il tiro per guadagnare il consenso, ma come si può andare avanti così?
Però si rischia di far morire una parte notevolissima dell’Italia…
Quando muore una parte del tessuto organico di una persona è la persona nell’insieme che soffre, non è solo quella parte specifica.
Questo è un rischio per tutta la Nazione.
Pensiamo ai disastri ambientali: se il territorio non è presidiato a monte, gli effetti si avvertono a valle. E poi la perdita del patrimonio artistico, che fa dell’Italia un museo a cielo aperto, dove la mettiamo se muoiono questi territori? Il discorso è molto lungo.