Idee
Il vertice dei Volenterosi in formato allargato concluso a Berlino fotografa l’atmosfera controversa che accompagnerà il round negoziale a Miami. E suggerisce il disallineamento epocale che la guerra in Ucraina sta portando in superficie nel campo occidentale. Il documento sottoscritto dai leader euroatlantici parla di tregua e dopoguerra: sostegno per dotare Kiev di un esercito di 800mila unità (il più grande di sempre, in Europa, dal 1945); dispiegamento in loco di una forza di garanzia multinazionale a guida europea; un meccanismo di soccorso analogo all’art. 5 Nato; prestiti per la ricostruzione con un non meglio chiarito impiego degli asset russi sequestrati. Ma il nodo dei territori perduti viene lasciato irrisolto e si temporeggia sulle garanzie pretese da Mosca.
Trump invece soffia sul collo e chiede a Kiev di accelerare la convergenza con i suoi 28 punti, prefigurando l’irrigidimento del Cremlino se si volesse ancora procrastinare. A dargli man forte, il possibile allargamento delle inchieste sulla corruzione che ha lambito il “cerchio magico” del leader ucraino, ma soprattutto le avvisaglie di guerra civile che, stando alle parole di Zaluzhny, potrebbero divampare nel Paese, osservando i renitenti organizzati in gruppi armati e lo stillicidio di esecuzioni sommarie dei membri delle milizie ultranazionaliste responsabili della strage di Odessa del 2014.
La fretta della Casa Bianca rispecchia la svolta dell’ultima National Security Strategy: il ripiegamento dall’agenda dell’egemonia unipolare avviata negli anni ’90, necessario a selezionare i teatri di maggiore interesse per gli Usa. Il che vuol dire anche alleggerirsi della zavorra europea, per riaprire il dialogo con Mosca su altri dossier geopolitici, per non lasciare campo libero soprattutto alla Cina.
Il Cremlino invece ostenta la calma di ha dalla sua mezzi e tempo per ottenere manu militari ciò che rivendica. Guardando all’andamento complessivo del conflitto, ciò può essere vero. In realtà Putin preferirebbe chiudere la partita in sede diplomatica quanto prima. E non solo per fermare il dispendio di risorse che il conflitto sta comportando. Egli ha il suo da fare con i falchi interni, che chiedono una soluzione di forza stile “Baghdad 2023” per tacitare le voci più belliciste della russobia. Inoltre, il crollo per estenuazione dell’intero Stato ucraino, con un Paese balcanizzato e fuori controllo, sarebbe un grattacapo anche per Mosca. Soprattutto, un trattato con Kiev avallato dai Volenterosi darebbe qualche garanzia in più, complicando le tentazioni a riaprire il conflitto e a rilanciare l’espansione Nato.
L’impazienza di Trump non è invece condivisa dalle elites neoliberali europee, assuefatte a collocarsi nella scia del New World Order americano. Certo, la rinuncia al gas russo in conseguenza della guerra ha imposto un cambio di programma, ma la controsterzata di Trump aggrava la difficoltà di reinventare il rilancio dell’economia Ue. Per fare di necessità virtù, il riarmo è sembrato una buona opportunità. Certamente esso frutta commesse per il comparto militare-industriale statunitense e calibra i bilanci statali a favore dei colossi finanziari implicati nel settore, a cui diversi leader non sono estranei (si vedano le carriere di Merz in BlackRock e di Macron in Rothschild & Co.), ma promette bene anche per l’industria bellica continentale, a giudicare dai titoli di Rheinmetall e sorelle. Eppure a Washington basta l’aumento delle spese Nato estorto ai gregari, senza però pregiudicare la riapertura dei canali con Mosca in ottica globale. Invece per gli euroatlantisti è importante dare corpo a una minaccia esistenziale che motivi, all’opinione pubblica interna, impegni di spesa e allegate riforme strutturali, sincronizzando le tempistiche del riarmo con la previsione di un incombente attacco da est. La prospettiva è tenere duro, auspicando l’indebolimento di Trump alle prossime elezioni di medio termine.
Tuttavia già nella Commissione non mancano segnali di nervosismo verso le voci dissonanti. È recente il caso dei provvedimenti (blocco dei conti e interdizione alla circolazione in territorio Ue) promossi da Kaja Kallas a carico di Jacques Baud, noto analista militare ed ex colonnello svizzero con all’attivo incarichi Onu, accusato di propaganda putiniana per le critiche alla linea diplomatica dell’euroatlantismo: di fatto, punizioni esemplari per “reati di opinione”, per giunta senza passare per un regolare processo, giustificabili in democrazia solo in uno stato di guerra.
A dispetto della compattezza, il fronte euroatlantista si articola in interessi particolari, non sempre congruenti. Mentre Francia e Germania si contendono la futura leadership economico-militare sul continente, Polonia e baltici puntano a ridisegnare le gerarchie di Bruxelles investendo sul loro ruolo di avamposto della futura trincea orientale.
Spine nel fianco della compagine europea restano Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, condannate dalla geografia a coltivare nessi con le risorse russe per evitare la totale subalternità a Berlino e Varsavia. E chissà se un domani Budapest sarà la sola a opporsi all’integrazione in Ue di un’Ucraina a cui riservare la gran parte dei fondi unionali. Di sicuro oggi Orbán cavalca il sovranismo per sganciarsi dagli eurovincoli e coltivare i flirt bilaterali con gli Usa di Trump. La tentazione accarezza anche il governo italiano, ma con la difficoltà di tenere il piede in due staffe, come emerge dal confronto tra il documento sottoscritto da Meloni a Berlino e la risoluzione di maggioranza che esclude l’invio di contingenti e tace sugli aiuti militari.
Discorso a parte merita Londra, che fa perno sulla Ue giovandosi contemporaneamente dell’autonomia offerta dalla Brexit per sperare di salvaguardare l’accordo centenario siglato con Kiev a gennaio: intelligence e assistenza militare in cambio dello sfruttamento minerario, che la bozza di pace di Trump sacrificherebbe non poco.
Ora gli occhi sono puntati sul tavolo di Miami. Stretta tra calcoli e prepotenza, davanti al popolo ucraino si para il dilemma tra una “pace sporca” e una distruzione a oltranza. Eppure, da qualche punto occorre pur muovere per porre fine al disastro e ricostruire pazientemente i ponti tra le nazioni. Come ha affermato il Santo Padre nel messaggio alla LIX Giornata mondiale per la Pace, questa è una responsabilità ineludibile, per non colare a picco nella spirale che, dipingendo la guerra come un’opportunità, non paga mai le sue scommesse.