Tra le dimensioni centrali della spiritualità cristiana ce n’è una che forse pare scontata, ma che merita un’attenta considerazione: quella della gratuità. Ci limitiamo qui a pochi spunti, tratti dalla Scrittura, in rapporto alla impegnativa e affascinante missione di annunciare il Vangelo.
Nel cosiddetto discorso missionario, al capitolo 10 del Vangelo di Matteo, il Signore consegna ai suoi una motivazione che regge l’invio: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). Non li manda perché essi abbiano meriti o preparazione speciali, ma perché non è possibile fare di quello che hanno ricevuto stando con lui un fatto privato o un’etichetta identitaria in cui stabilirsi e magari rintanarsi come “diversi” dagli altri. Non si può trattenere come un possesso ciò che è dono. Un dono non ci appartiene, ma una volta che con gioia, gratitudine e meraviglia l’abbiamo ricevuto e accolto, apparteniamo alla logica che esso esprime. La logica della bellezza di dare perché un altro ne sia felice.
Un’altra sollecitazione la cogliamo dall’apostolo Paolo, nella prima lettera ai Corinzi: «Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo! […] Quale è dunque la mia ricompensa? Quella di predicare gratuitamente il vangelo senza usare del diritto conferitomi dal vangelo» (1Cor 9,16.18). Paolo afferma che l’annuncio è ricompensa a se stesso (non il numero dei convertiti!), non ha altro interesse che contribuire al diffondersi del Vangelo, corrispondendo così non a una sua iniziativa, a un suo progetto di efficacia, ma a un incarico affidato (cf. 1Cor 9,17). Con quali mezzi? Quali stratagemmi? «Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1Cor 9,22). Non si tratta di un adattamento sulla spinta delle convenienze, ma di una libertà capace di uscire dal proprio particolarismo per incontrare davvero tutti.
In questo senso essere gratuiti significa diventare “spaziosi”, avere cura sempre di preparare uno spazio pronto a lasciar entrare, con le porte aperte perché lo si veda, ma anche saper stare in un’affettuosa attesa, avendo cura della felicità di quelli che vediamo da vicino e in lontananza. Invitare dunque, ma anche esserci con affetto, disponibili a lasciarci noi invitare, attenti a non diventare discepoli lontani, difficili da raggiungere, perché dettiamo noi modi e tempi. Sono sempre gli altri i lontani? E se fossimo noi con le nostre mentalità e ansie di risultati? La donna che entra – senza essere invitata – in casa del fariseo Simone (cf. Lc 7,36-50) porta alla luce quanto nella sua mentalità agisca un “calcolo religioso”. Egli vede solo la “lontana”, la “peccatrice” che non ha un curriculum consono ad avvicinarsi a un profeta, né pare aver fatto passi adeguati di purificazione che giustifichino la sua sfacciata intimità! Il Dio di Simone fa i conti, Gesù accoglie il dolore e l’amore di quella donna, così come lei lo effonde, cospargendo di lacrime, baci, profumo i suoi piedi. Le lascia la libertà dei suoi sentimenti, senza misura e domande. Come avrà capito quel giorno che le era possibile esser così vicina a lui? Aveva trovato una porta aperta, uno spazio per incontrarlo, nonostante la contrarietà di Simone e certo non solo di lui!
È la sfida delle nostre comunità, quando ci arrovelliamo su cosa inventarci per attirare e interessare. La questione che spesso emerge è come coinvolgere gli adulti, i genitori nei percorsi dei figli. Occorre anzitutto lasciar parlare le loro storie: Gesù lascia piangere la donna, si interessa con affetto della vita di chi incontra, di Zaccheo, della Samaritana. Suscita, a partire dalla situazione dell’altro, uno spazio di relazione e offre la sua presenza, lì dove un uomo e una donna si trovano. Lasciando la libertà di andare e tornare, pronto a camminare a fianco, lungo le strade che non hanno porte, ma volti e sguardi ospitali che fanno gratuitamente casa.