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Crisi energetica, speculazioni e incertezza. Ecco il contrappasso del sistema che vende cara la… pellet
Eppure l’Italia potrebbe mettere a rendimento il naturale patrimonio boschivo, senza deforestare
Eppure l’Italia potrebbe mettere a rendimento il naturale patrimonio boschivo, senza deforestare
Il gas, quando i rubinetti di questo o quel gasdotto non sono chiusi, costa caro. La benzina e il gasolio, si sa, sono figli legittimi del petrolio che è pur sempre l’oro nero e come tale si fa pagare. Solo gli alberi e “derivati”, bontà loro, ciavevano finora dato un po’ di tregua facendosi pagare qualcosa meno della concorrenza. Una tregua di prezzo, quella con le biomasse legnose, che si è interrotta bruscamente nell’ultimo anno e di cui si sono accorti soprattutto i consumatori che negli anni avevano implementato o sostituito i tradizionali sistemi di riscaldamento con stufe a pellet, spinti soprattutto dalle attese di risparmio. In pochi mesi il prezzo di un sacco da 15 chilogrammi di combustibile A1, il più bianco e pregiato, è schizzato da 5 euro a 12 euro e non sembra destinato a fermarsi. Prezzi alle stelle, scarsità di combustibile sul mercato e imprevedibilità tanto delle quotazioni quanto delle forniture hanno spinto Aiel, l’Associazione italiana energie agroforestali, a parlare di “tempesta perfetta”. A crearla avrebbe contribuito la guerra in Ucraina con il conseguente embargo europeo all’importazione di legname da Russia e Bielorussia, con annessa contrazione del mercato del 10 per cento a livello nazionale. Tra cause dirette e indirette, infatti, l’embargo avrebbe fatto venir meno circa tre milioni di tonnellate di pellet. A questo si sono poi aggiunte le misure protezionistiche introdotte da alcuni Paesi europei che complicano la situazione, specie per l’Italia che è un importatore di pellet. «L’Austria, a differenza di Bosnia Erzegovina, Ungheria e Serbia – spiega Annalisa Paniz, direttore di Aiel – non ha bloccato le esportazioni ma ha una certa attenzione a garantire prima i consumi interni. Non bisogna dimenticare che, anche in Austria, la domanda è aumentata».
A incidere sull’aumento dei prezzi, oltre all’adeguamento fisiologicamente più lento dell’offerta rispetto alla domanda, ci sono anche i costi della filiera: proPellets Austria ha stimato in oltre il 40 per cento gli aumenti già registrati e non sono da sottovalutare i costi di trasporto, dal container al camion. «È un mercato diverso, locale, che si basa su filiere corte – spiega Paniz quando le si chiede conto di una mancata politica europea di solidarietà sulle biomasse come quella che esiste per altre fonti di energia – Noi il pellet lo importiamo, è vero, ma si tratta comunque di una produzione locale e non si possono mutuare sistemi e accordi come quelli che valgono per gli idrocarburi». Di fronte alla paura di rimanere a secco e nell’impossibilità di fare scorta di gas per l’inverno, i consumatori hanno però scaricato il loro nervosismo sul pellet e il legname il cui accumulo è evidentemente più facile. L’incertezza crea speculazioni e, talvolta, comportamenti illogici anche da un punto di vista economico, come spiegava il responsabile di Energia legno Svizzera Claudio Caccia a Rsi, Radiotelevisione svizzera: la legna prima di essere bruciata nelle stufe «viene lasciata stagionare in modo naturale per un paio d’anni» e per evitare questo passaggio bisognerebbe ricorrere a «camere di essiccazione, che richiedono però calore e quindi un costo supplementare». Impiegare energia per produrre altra energia, insomma, non propriamente una grande idea come quella di trascurare l’impatto che ha la filiera sulla produzione del pellet. I cilindretti di legno, infatti, sono realizzati con la segatura e i sottoprodotti di lavorazione delle segherie ma se il 36 per cento della superficie nazionale è coperto da foreste, la nostra filiera del legno importa circa l’80 per cento del suo fabbisogno. Ciò è dovuto anche a una politica nazionale di gestione dei boschi quantomeno conservativa: se il resto d’Europa taglia in media il 62 per cento della crescita annua delle foreste, l’Italia al massimo arriva al 34 per cento. Non si tratterebbe di disboscare ma di mettere a rendimento il naturale incremento del patrimonio boschivo. «Più che a livello europeo dobbiamo assicurare maggiore indipendenza alla filiera nazionale – conclude Annalisa Paniz – Dobbiamo rimettere al centro le politiche di ottimizzazione delle risorse forestali». Tutto questo anche per favorire l’ingresso sul mercato di nuove realtà produttive come quelle che già si pianificano in Austria e che porteranno la Francia a raddoppiare la produzione interna di pellet nei prossimi cinque anni.