Idee
L’utopia del bene è un’opera collettiva e il suo risultato porta giustizia sociale, un concetto legato alla democrazia, alla partecipazione, alla pace e allo sviluppo della società civile. «Tutti e tutte le persone benintenzionate sfidano l’utopia e ammettono che, come il bene e l’amore, anche la giustizia è un compito che si deve conquistare ogni giorno – ci spiegava papa Francesco – C’è un chiaro legame tra la protezione della natura e l’edificazione di un ordine sociale giusto ed equo. Non vi può essere un rinnovamento del nostro rapporto con la natura senza un rinnovamento dell’umanità stessa».
Un tema denso, quella della giustizia sociale, che è alla base dell’azione del volontario anche se «da sempre ci sembra di svuotare l’oceano con un cucchiaino e adesso il cucchiaio appare anche bucato perché tutto il sistema dei diritti su cui si è basata la nostra attività è saltato» racconta con amarezza Raul Pantaleo, “l’architetto di Emergency” che, ascoltando Gino Strada, ha portato il bello negli ospedali delle zone più difficili. Pantaleo coniuga impegno civile e professionale con l’“architettura del noi” che significa architettura come azione di servizio verso il volontariato: «Il mondo del volontariato è la cosa più rivoluzionaria che ci sia in questo momento perché al di fuori della logica del profitto; non misura un’azione attraverso una quantificazione economica e questo riguarda anche il mondo dell’architettura al quale io appartengo. Ho cercato di portare nell’architettura i valori di questa esperienza che nasce dalla militanza, dal volontariato, dall’idea di dono che non vuol dire gratuito: io faccio un volontariato sostenibile, sono cresciuto nel mondo dell’economia solidale, dell’idea che ci possa essere un’economia non rapace come quella in cui viviamo e questa è la cifra del nostro lavoro, che l’architettura è un’azione di servizio, soprattutto di servizio per le persone che ne hanno più bisogno e questa è stata anche la grande scommessa di portare la bellezza anche nei luoghi più difficili grazie alla provocazione di Gino Strada: facciamo ospedali scandalosamente belli e proprio per coloro che ne hanno bisogno. Questo modo di vedere l’architettura parte dalla cultura del dono: la filosofia del nostro studio (Tam Associati, ndr) è dare servizio a chi cerca di immaginare un altro mondo e questo non nasce da una scelta professionale, ma dal fatto di appartenere al mondo del volontariato che è fatto di grandi soddisfazioni ma anche di grande fatica».
Che per fare il volontario ci voglia impegno lo sottolinea anche Elisa Brusegan, presidente dell’Associazione Elisabetta d’Ungheria nata 40 anni fa per volontà delle suore elisabettine e di un gruppo di laici e sacerdoti che, trovandosi di fronte alla evidenza di persone morte sulla strada a Padova, decisero di attivarsi: «Negli anni l’associazione ha un po’ cambiato la sua veste, ma l’obiettivo è quello di sostenere le persone che si trovano in condizioni di marginalità sociale. Gestiamo Casa Elisabetta, un appartamento per uomini senza dimora, evoluzione del dormitorio invernale. Noi lavoriamo soprattutto sulle relazioni e così si crea giustizia sociale senza rendersene conto perché c’è la consapevolezza che siamo tutti uguali, tutti possiamo cadere e certe volte è difficile rialzarsi da soli. Che agiamo per la giustizia sociale lo intuiamo quando ci confrontiamo con altre realtà e capiamo di far parte di un sistema in cui cerchiamo di innescare un cambiamento. Lo facciamo con la gratuità, col sapere che chi è davanti a noi è una persona libera e che sappiamo accoglierla nella misura in cui lei decide per sé quello che noi proponiamo. Il buon Dio ci lascia liberi nelle nostre scelte e questo pensiamo anche noi».
Per Guido Turus, presidente della Fondazione Pizzuto, «la giustizia sociale va coniugata con le altre giustizie, con il rispetto di tantissime altre questioni che stiamo vivendo. Tutte le giustizie vanno tutelate: chi attacca il sistema dei diritti attacca tutti i diritti. Ogni volta in cui noi pensiamo di tutelare i diritti civili senza occuparci del resto, in realtà non li tuteliamo perché questo capitalismo sfrenato si approfitta della natura così come si approfitta dei lavoratori e di tutti. Nel momento in cui c’è un atteggiamento “malato” nei confronti degli altri questo inevitabilmente si ripercuote su tutti; parliamo di giustizia sociale quando parliamo dei migranti climatici, dei loro diritti, e non possiamo pensare di risolvere i loro problemi senza pensare a come risolvere la crisi climatica. La giustizia sociale implica necessariamente un impegno politico, perché come diceva don Milani “non possiamo fare parti uguali tra diversi”, ma dobbiamo creare punti di partenza avvantaggiati per chi ha condizioni di vita differenti, difficili».
E questo lo dice anche la nostra Costituzione: «La politica la fanno anche le associazioni di volontariato e i cittadini – insiste Turus – Parlare di giustizia sociale non vuol dire diamo a tutti gli stessi diritti: è un lavoro attivo, impegnativo, bisogna fare in modo che anche chi è meno uguale degli altri sia messo, con l’impegno della Repubblica, nelle stesse condizioni degli altri. Se oggi pensiamo a Gaza e pensiamo alla giustizia sociale, capiamo che è anche distruzione di un terreno: non possiamo pensare che la distruzione dell’uomo, il negargli diritti fondamentali come l’accesso al cibo, la salute, sia distaccato da quelli ambientali».
“Taking Care, progettare il bene comune”, titolava il Padiglione Italia della Biennale di Architettura nel 2016, curato dallo studio Tam Associati (che ha sede a Venezia) grazie alla tenacia del rivendicare un nome collettivo «espressione concreta di un modo diverso di concepire l’architettura intesa come servizio collettivo in equilibrio con il mondo che condividono con altri umani e non-umani».
La vicenda – e molto, molto altro – Raul Pantaleo la racconta nel volume Architetture del noi (edito da Elèuthera, luglio 2025, 136 pagine, 13,30 euro): «Nella sezione “Agire il bene comune” abbiamo portato in mostra la nostra utopia: cinque progetti inediti di cinque dispositivi mobili (container carrabili, moduli standard personalizzati) pensati per cinque associazioni impegnate nel contrasto alla marginalità. Un’idea di fare architettura a partire dai bisogni reali e grazie a un crowdfunding civico, tre dei cinque dispositivi – un ambulatorio mobile realizzato per Emergency, un presidio per l’educazione allo sport pensato per Uisp (Unione italiana sport per tutti) e una biblioteca mobile realizzata per Aib (Associazione italiana biblioteche) – sono diventati avamposti di cultura e legalità, giustizia e bellezza agendo nelle periferie più disagiate d’Italia come “semi” di risveglio civico a partire dall’incubatore culturale della Biennale. Questa straordinaria esperienza, realizzata all’interno di una grande istituzione come La Biennale, è stata il coronamento di un lungo percorso verso quella che chiamiamo l’architettura del noi. Il nostro padiglione ha dimostrano come l’architettura, intesa come bene comune, potesse agire anche in contesti in cui normalmente è assente» per realizzare «architetture del noi che fossero rappresentazione di economie non monetarie e che superassero un’ottica individualistica in favore di una visione cooperativa».