Fatti
Fra le parole in italiano che Rahaf, il fratello gemello Mohammed e la sorella Raghadmadi, hanno imparato da quando sono in Italia, da metà agosto, ci sono “ciao”, “arrivederci”, “come stai?”, “amico”. Ma una che piace in modo particolare alla diciottenne Rahaf, è “passione” «perché nella passione trovo anche la speranza», dice.
Sono giunti nel nostro Paese, dalla Striscia di Gaza, grazie all’associazione “Padova abbraccia i bambini” che in coordinamento con Unità di crisi, Protezione civile, ospedale di Padova, Prefettura di Padova lavora per l’evacuazione dei minori e la loro accoglienza. Sono le missioni di evacuazione medica di persone, in particolari minori, gravemente ferite e/o malate e impossibilitate a curarsi in patria. Questa attività è definita e disciplinata come MedEvac, Medical evacuation.
I tre fratelli sono ospitati nella canonica della parrocchia del Torresino e sono qui con la mamma e il papà, un’altra sorella di 8 anni e altri due fratelli gemelli di 13 anni. Provengono da Gaza City e portano i segni e le ferite di quanto il loro Paese sta vivendo: nello sguardo impaurito, a tratti timido, nello stringere le spalle, quasi a voler scomparire, nei piccoli gesti affettuosi che hanno fra di loro, come la più piccola che sistema il velo alla sorella più grande, nella fatica – almeno iniziale – a parlare, a raccontarsi, e anche nel fisico. Rahaf ha subito l’amputazione di una gamba, la mamma di un dito della mano e del tallone di un piede. La sorellina di 8 anni di entrambe le gambe.
I tre ragazzi più grandi frequentano l’istituto Barbarigo. I due gemelli sono stati inseriti nella quinta liceo scientifico, la sorella quindicenne invece in seconda liceo scientifico. «Tutto parte da un incontro alla chiesa del Torresino – racconta Maria Pia Vallo, preside dell’istituto – Il mio primo pensiero è stato quello di trovare una soluzione per l’inserimento all’interno della scuola. Sono rappresentante della Fidae Padova Rovigo e quindi ho cercato di collocare questi ragazzi nelle nostre scuole. Tre sono stati ospitati qui all’Istituto Barbarigo. Gli altri tre invece sono stati inseriti presso l’istituto delle Dimesse, due fanno la terza media, la più piccola è alla primaria, però attualmente per i problemi sanitari che ha sta facendo un percorso domiciliare».
A settembre, quindi, allo squillo della prima campanella dell’anno scolastico hanno iniziato anche loro la scuola, in un’aula nuova, con nuovi compagni, materie diverse, una lingua nuova. «All’inizio avevamo un po’ di ansia perché è un nuovo mondo; è tutto nuovo per noi. Poi piano piano ci stiamo abituando, anche con tutti i compagni nuovi», dicono. «Il loro grande desiderio era di ritornare a scuola – afferma Maria Pia Vallo – Questa è stata la loro prima domanda ed è stato emozionante quando sono entrati a scuola, in classe. Nessuno cancellerà in noi l’emozione di quel primo giorno. Ovviamente avevamo preparato i ragazzi, i compagni di classe, quindi c’è stato un bel momento di accoglienza, di inserimento». Fra le materie preferite, quasi all’unisono, tutti e tre i fratelli elencano quelle scientifiche: matematica, chimica, scienze. Quelle che amavano anche quando erano in Palestina. Del resto da grandi vorrebbero diventare medici: «Di persone – sottolineano – non veterinari», ma aggiungono che amano gli animali, non ne hanno mai avuti in casa e chissà, forse un giorno… ora sarebbe una responsabilità troppo grande, la scuola impegna molto. Per loro studiare è essenziale, lo ribadiscono in più occasioni: è una cosa fondamentale. Durante la guerra, raccontano, molti bambini e ragazzi hanno continuato lo stesso a studiare, cercando un modo per farlo, per non perdere ciò che avevano già fatto. «Il nostro desiderio – dice Rahaf – è trasmettere la nostra storia attraverso la scienza, attraverso gli studi. Per questo la scuola è qualcosa di essenziale, fondamentale. In Palestina la scuola era veramente una parte importante della nostra giornata, anche se mancavano tante cose, ad esempio non avevamo laboratori di scienze». Raccontano che i professori dicevano loro di non pensare a una guerra con le armi contro il nemico, ma piuttosto di combattere con il sapere, con lo studio, la conoscenza. «Il popolo palestinese è un popolo molto forte, molto intelligente e il problema è che è un po’ limitato, cioè povero – spiega Rahaf – A Gaza c’è un popolo che ama tanto la vita. Dorme e si sveglia con la speranza di un futuro migliore, la speranza di una vita migliore di quella che c’è adesso. L’occupazione sta cercando di uccidere il popolo non solo con le armi, ma anche bloccando l’istruzione. Scuole e università sono tutte bombardate. Però siamo un popolo forte, che ama studiare e nonostante tutto, adesso ci sono persone e ragazzi che hanno finito la scuola. I ragazzi vogliono continuare gli studi». Rahaf spiega che chi è nato e cresciuto a Gaza ha uno spirito combattivo, non demorde, per questo per loro coltivare la speranza è molto importante. Rahaf riferisce che aveva la speranza di vivere in pace e aggiunge che, quando hanno sentito la notizia della fine della guerra, hanno pensato che finalmente le persone possono camminare senza la paura di essere uccise o bombardate in qualsiasi momento, possono addormentarsi senza il pensiero di svegliarsi e non trovare più un familiare perché ucciso. «Raccontare cosa facevamo in Palestina – continua la ragazza – quello che è successo, che abbiamo vissuto, non può mai descrivere quello che è accaduto e quello che abbiamo subìto. Cioè con le parole è molto difficile spiegare la nostra vita. Qualunque cosa tu dica, o provi a spiegare, non potresti mai descrivere cosa è stato. Facciamo tanta fatica a spiegare con le parole quello che è accaduto, quello che abbiamo vissuto. Tutto ciò che è accaduto prima della guerra, che abbiamo vissuto, per noi adesso è qualcosa di meraviglioso, sono ricordi bellissimi paragonandoli a quello che è successo dopo, anche se possono sembrare banali. Per noi sono qualcosa di magnifico, se paragonato a cosa abbiamo vissuto in questi ultimi due anni».
Per dare ancora più forza a questi pensieri, tutti e tre sintetizzano in tre parole il loro primo desiderio appena arrivati in Italia: pace, sicurezza e serenità. E se si chiede loro quale parola in arabo serbano nel cuore, la prima è sicuramente Filastīn, Palestina a cui aggiungono pazienza e Gaza.
Il loro futuro ora però lo vedono qui, in Italia. «L’Italia è un paese bellissimo – afferma Raghadmadi – è molto bello. Anche Gaza è bella, è la mia patria! Ma ora vorrei finire gli studi qui. Un sogno che avevo da piccola è quello di viaggiare per il mondo. Quando finisco gli studi, avrò un lavoro, forse potrò iniziare a pensare di realizzare questo sogno, di viaggiare e scoprire altre culture». «Da quando siamo nati – aggiungono i due gemelli – viviamo in una città che è praticamente tutta bloccata. Non sappiamo niente del mondo. Il nostro sogno è scoprire il mondo».
E infine concludono esprimendo un altro desiderio: «Vorremmo tantissimo che il mondo non togliesse il suo sguardo su Gaza. Questo è importante per noi, così come il supporto morale. La sensazione di vedere e sentire che qualcuno ci sta vicino, almeno con il suo cuore, è qualcosa di bellissimo e ci aiuta anche a resistere, specialmente nella nostra situazione».
Insegnanti e preside non nascondono le difficoltà di questa esperienza, soprattutto per i gemelli che dovrebbero affrontare la maturità: «Il problema è come riuscire a farli arrivare all’esame – sottolinea Giorgia Dianin – Questo è il nostro obiettivo e burocraticamente parlando ci sono diverse difficoltà che dobbiamo riuscire a superare, non è facile. Sembra tutto un po’ assurdo, sentendo le storie che questi ragazzi hanno alle spalle e soprattutto la voglia che hanno di finire gli studi. Per loro lo studio significa portare chi sono nel mondo e portare la loro storia. Come possiamo noi permetterci di bloccarli in questo percorso?». «Stiamo facendo scuola a un livello diverso – aggiunge Alberto Strukul – Qui non si parla di un’aula con i banchi, della verifica o dei compiti per casa. È una cosa diversa che sta coinvolgendo la classe. Stiamo cercando di creare delle persone pronte a uscire e questa è una occasione importante per insegnare delle cose diverse dai libri. La burocrazia che ci blocca è frustrante, perché le cose in ballo sono più importanti di un pezzo di carta. Paletti e regole ci sono ed è giusto che ci siano. L’obiettivo è che la speranza di questi ragazzi, diventi qualcosa di concreto».
È stato sicuramente un primo giorno di scuola speciale quello che hanno vissuto i tre fratelli di Gaza, ma anche quello che hanno vissuto i compagni di classe e gli insegnanti dell’istituto Barbarigo. «I professori sono gentili e buoni – affermano le due sorelle – hanno accettato subito la nostra presenza e la nostra situazione, il nostro modo di essere. Ci aiutano a integrarci con tutti. Non ci aspettavamo tutto questo. Anche i compagni sono molto educati e gentili. L’unico problema è la lingua e la cultura diverse». C’è un po’ di timore, secondo Rahaf, nei compagni di fare qualcosa di sbagliato, così come da parte loro. «Ma questo è normale quando non ci si conosce – dice – e la lingua diversa non aiuta. L’italiano è una lingua molto bella, ma per noi è molto difficile perché è neolatina e a scuola non abbiamo studiato il latino o il francese». È tutta una novità, anche per gli insegnanti: «Quando la preside ad agosto ci ha comunicato l’arrivo di questi ragazzi – spiega Giorgia Dianin, docente di inglese alle superiori e collaboratrice della preside per il liceo scientifico – c’è stato sia un sentimento di gioia nell’accogliere studenti che provenivano da una realtà così dura, sia di timore. È sicuramente un’esperienza formativa, come persone prima di tutto, prima di essere insegnanti o compagni di classe. Ci si rende conto di quanto abbiamo noi. La guerra sembra un fatto lontano, anche per i nostri ragazzi. Ne sentono in tv, ne leggono, ma rimane lontana. E invece entrare a contatto così d’impatto con le storie vissute da coetanei credo sia sicuramente un’esperienza che li segna positivamente nella capacità poi di integrazione e di accoglienza».
Insieme alla professoressa di inglese c’è anche Alberto Strukul, docente di scienze motorie e sportive, che vede i ragazzi in contesti diversi. «C’è un po’ la paura di sbagliare – afferma – ma anche l’orgoglio di far parte di un percorso di questo tipo che dà la possibilità di vedere le cose con occhi diversi. Cerchiamo di mettere in piedi anche piccole cose che possano però aiutare l’integrazione, come ad esempio una partita di calcio».
«Credo che l’obiettivo della scuola non sia solo insegnare e fargli avere poi un diploma. Questa è una scuola di vita per tutti. Dobbiamo muoverci su una scuola che non dia solo delle conoscenze, ma una scuola che ci permette di conoscere la vita nel vero senso della parola», spiega la docente di inglese. «Una scuola – conclude Strukul – che sappia cogliere l’argomento che non è all’interno di un libro, ma che è all’interno della vita, che sappia coglierlo e diffonderlo. Questa deve diventare un’occasione di crescita, perché i ragazzi quando escono dalla scuola sono dei cittadini, non solo degli studenti. È ambizioso, ma abbiamo la speranza di riuscirci!».
Attualmente sono cinque le famiglie che l’associazione “Padova abbraccia i bambini” sta seguendo in sinergia con altre istituzioni. «Diamo accoglienza – spiega Rebecca Fedetto, avvocata e presidente dell’associazione – e ci occupiamo di ogni necessità di queste persone che, arrivando da un contesto di guerra e tramite un canale di emergenza, necessitano di beni materiali di sussistenza, di un luogo
dove vivere e di un aiuto concreto per le cure ospedaliere. Una presa in carico effettuata dall’associazione in stretto coordinamento con il Comune di Padova, la Prefettura e in contatto quotidiano con l’Azienda ospedaliera». Tante le necessità cui dare risposta, dal vestiario al materiale scolastico, ma non solo. Per contattare l’associazione: padovaabbracciaibambini@gmail.com oppure sui canali social Facebook e Instagram “Padova Abbraccia i Bambini PAB odv”.

Preside, docenti, compagni di classe, famiglie e anche tanti volontari, ex alunni. Tutti in prima linea per sostenere i ragazzi di Gaza. «La scuola non si è persa d’animo – afferma Maria Pia Vallo, la preside – e ha avviato una campagna, “Esserci”, tra gli ex allievi. Hanno risposto in tanti, professionisti, alcuni studenti appena usciti dalla scuola, ex allievi che dedicano del loro tempo per aiutare questi ragazzi nello studio e mettersi così al passo con i loro compagni. Al pomeriggio invece i ragazzi sono seguiti dai volontari dell’associazione Padova abbraccia i bambini. La loro gratitudine, anche per piccoli gesti, per cose semplici, è impagabile. Ciò che adesso li spaventa di più è l’incertezza di poter concludere il ciclo scolastico. Hanno un gran lavoro da fare, ma noi li sosteniamo e siamo sicuri di farcela, di trovare la strada per coronare il loro sogno!».