Negli ultimi mesi del vecchio millennio, la Tim sfornò un filone di spot pubblicitari in cui la costante era il set (il treno), la musica d’accompagnamento (con la voce di Andrea Bocelli) e il messaggio basato sul vivere senza confini, che viaggiare all’estero, in Europa, era allora più agevole grazie a piani tariffari e nuova tecnologia telefonica al punto da azzerare le “barriere”. Intrinseca, c’era quest’idea di movimento, questo treno da prendere per approdare in Europa, verso il mondo aperto, un approccio paneuropeo con la moneta unica che sarebbe nata di lì a poco. Il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, per molti versi rimanda proprio a quell’idea all’alba degli anni Duemila. L’immagine del treno, dell’ultimo treno da prendere al volo per rilanciare l’Italia, per riformare parte delle storture che ci trasciniamo da decenni e ridurre gap non solo geografici, ma anche di identità.
Il Pnrr nasce come documento che ha lo scopo di illustrare alla Commissione europea la pianificazione degli investimenti dei fondi che sono stanziati all’interno del programma Next generation Eu, un’operazione più ampia che ha l’obiettivo di incentivare la ripresa economica post-pandemica degli Stati membri dell’Unione. Non bastasse è stato sospeso il patto di stabilità e crescita, un insieme di regole che hanno lo scopo di coordinare le politiche finanziarie dei Paesi europei. Cosa significa? In parole semplici, quelle di Francesco Giavazzi, consigliere economico del presidente del Consiglio, «da questo piano dipende il futuro dell’Europa dei prossimi 50 anni».
Giavazzi, intervenuto in un convegno a Padova lo scorso gennaio per illustrare i passaggi essenziali del programma Italia domani fa l’esempio del dollaro americano: «In America è nato prima il dollaro e poi le regole fiscali comuni. Noi in Europa, abbiamo fatto l’euro vent’anni fa, ora dobbiamo fare il passo successivo, l’unione fiscale. Ma si basa fondamentalmente sulla fiducia, soprattutto dei Paesi del Nord Europa verso quelli del Sud. Se il Pnrr dovesse funzionare allora è auspicabile uno slancio verso l’unione fiscale: ed è una prova che riguarda l’Italia, il Paese purtroppo colpito più pesantemente dalla pandemia, ed è per questo che ha la parte più cospicua dei fondi. Se l’Italia fallisce, tutta questa prospettiva è morta.
Ecco, la responsabilità cruciale in Europa». Tra prestiti da restituire (122,6 miliardi di euro, prima beneficiaria assoluta), sovvenzioni da non restituire (68,90 miliardi), fondo complementare istituito dal governo da 30,6 miliardi di euro e 13 miliardi del programma ReactEu, l’Italia può beneficiare di 235,1 miliardi di euro (Il Veneto avrà direttamente 7,8 miliardi). La Commissione europea ha ben capito la posta in gioco e “investita” sul nostro Paese ed è per questo che ha lavorato fianco a fianco per costruire progetti ambiziosi ma realizzabili, “consigliando” anche modelli di sviluppo virtuosi replicabili da altre Nazioni, come nell’ambito sanità, le case della comunità su esempio tedesco. Insomma, su salute, giustizia, transizione ecologica, parità di diritti, infrastrutture, educazione, la probabilità di fallimento dev’essere zero. Non esiste un “piano B” o un treno d’emergenza per evitare il deragliamento. Ed è per questo che è stato stilato un cronoprogramma rigido e vincolante, la cui verifica sul rispetto delle scadenze da parte delle istituzioni europee, garantisce o meno l’erogazione dei fondi.
Da qui al 2026, il Pnrr prevede la realizzazione di 226 misure suddivise tra 62 riforme e 164 investimenti, questi ultimi devono essere portati a compimento rispettando una rigida tabella di marcia che prevede, per ogni misura, l’adempimento di alcune scadenze. Le misure previste dal Piano richiedono il completamento di 527 scadenze in totale e si suddividono in 314 milestone (obiettivi) e 213 target (traguardi): per valutare il raggiungimento dei primi si utilizzano indicatori quantitativi, come il numero di imprese che usufruiscono di determinati incentivi o l’incremento di personale nei tribunali. Le seconde invece si caratterizzano per una componente più qualitativa e rinviano generalmente all’approvazione di atti normativi o amministrativi. Entro il prossimo 30 giugno, l’Italia deve completare 38 scadenze con un fardello, seppur non irrecuperabile (e causato anche dalla guerra in Ucraina) di due scadenze non rispettate entro lo scorso 31 marzo.
Ma tutto questo servirà? Fatta l’Italia, che italiani avremo? In che Italia vivremo, più sostenibile, green, più europea, più accorciata nelle distanze? «Gli effetti positivi ci saranno, ma personalmente trovo impensabile che in quattro anni si possano superare difficoltà strutturali – è il monito di Martina Zaghi, analista di Openpolis che, in termini di monitoraggio, sta sopperendo alle lacune di comunicazione governative – O meglio non si può farlo solo versando quantità di soldi. Il territorio deve avere una struttura amministrativa in grado di gestirli, di progettare. Una delle linee guida per aumentare i posti di lavoro femminili, prevede che in ogni appalto pubblico finanziato dal Pnrr, il 30 per cento dei posti siano destinati a donne: giustissimo, ma dopo che ne sarà? Si cerca di modificare un radicamento dove non si è fatto nulla nell’ultimo mezzo secolo. Ci vuole un iter lungo non solo economico, ma politico e sociale. Il Pnrr non dev’essere il punto di arrivo. Ricordiamocelo».