Il mercato dell’intrattenimento digitale, che comprende i contenuti video, musicali e di gaming, era in crescita da svariati anni quando la pandemia ha prodotto un’accelerazione importante. Il numero di utenti che hanno sottoscritto abbonamenti a servizi video on demand (cioè su richiesta dell’utente), oltre che comprato videogiochi e annesse estensioni, è cresciuto e così il digital entertainment è diventato una componente robusta tra le spese fisse degli italiani. Nel 2021 il mercato di contenuti digitali in Italia ammontava a 3 miliardi di euro e ha visto gli italiani spendere 800 milioni di euro in abbonamenti e acquisto di contenuti premium, con una crescita del più 39 per cento rispetto agli anni precedenti. A maggio 2021 N26, banca tedesca online, stimava, a livello europeo, la spesa media mensile pro capite per abbonamenti online a 37 euro al mese, rilevando una media del 44 per cento di persone sottoscritte a due o tre abbonamenti e il 33 per cento del campione di età compresa tra i 18 e i 34 anni che ne aveva quattro o più. Da un lato sono le piattaforme più conosciute come Netflix, Amazon Prime e Spotify a fare da padrone, dall’altro il trend segnalato, soprattutto nel mondo video, è quello di una frammentazione dell’offerta che induce gli utenti a reperire i prodotti desiderati su piattaforme differenti, impegnandosi in più sottoscrizioni. «Con la pandemia c’è stato un impulso da parte degli editori a investire nel digitale e quindi c’è stato un incremento spropositato dell’offerta – spiega Samuele Fraternali, direttore del Digital content and online gaming observatory della School of management del Politecnico di Milano – Pensiamo a quante piattaforme video sono nate in questi anni. Inoltre, quello a cui stiamo assistendo è la forte diffusione dei modelli basati sugli abbonamenti. Oggi siamo arrivati a una situazione in cui forse c’è anche un po’ troppa offerta: troppe piattaforme di contenuti comportano che l’offerta sia frammentata e questo mette in difficoltà i consumatori. Se per ogni piattaforma si deve sottoscrivere un abbonamento la capacità di spesa richiesta al consumatore aumenta. Tra l’altro aumenta in un contesto macroeconomico come quello che stiamo vivendo, con l’inflazione alle stelle ora per la guerra e prima per la pandemia. Ora però sta iniziando a tornare in auge il discorso della pubblicità come modello di sostentamento per la distribuzione dei contenuti anche digitali». Altro tema è quello della consapevolezza con cui compriamo servizi digitali sottoscrivendo abbonamenti online, impegnando così una parte non indifferente del nostro budget. Da una ricerca realizzata da Switcho, start-up italiana di gestione delle spese, nel 2021 emerge che il 38 per cento degli italiani, cioè oltre uno su tre, non ricorda quanti abbonamenti online, sia per contenuti di intrattenimento che per servizi di altro tipo, ha all’attivo e quanto spende mensilmente per essi. La spesa, nel campione analizzato da Switcho, supera i 635 euro l’anno per un italiano su dieci. Tra chi si ricorda di cancellare gli abbonamenti, segnala, invece, una ricerca condotta da Deloitte, in Italia il 19 per cento delle disdette è dovuto a una valutazione del costo come troppo elevato e il 18 per cento avviene alla fine del periodo iniziale di prova o sconto. Visti i risultati emersi da una ricerca condotta in Italia, Canada, Francia, Germania, Spagna, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti, il network EY segnala inoltre che il 20 per cento del campione è interessato a ridurre il numero di piattaforme digitali che utilizza e il 48 per cento degli utenti afferma che le promozioni iniziali, per esempio i periodi di prova, influiscono molto sulla decisione di quali abbonamenti sottoscrivere ma rendono maggiormente difficile la valutazione di quale piattaforma proponga l’offerta migliore. È nel mondo dei videogiochi, invece, che esistono le dinamiche più particolari: «Questo settore ha una grande caratteristica – commenta Samuele Fraternali – cioè che il costo unitario del singolo prodotto proposto al consumatore finale è alto, quindi è difficile adottare una forma ad abbonamento, perché se faccio pagare 10 euro al mese ma il videogioco costa 80 poi come pago l’editore? Comunque questa è una tendenza che si sta consolidando, ci metterà ancora qualche anno a mio avviso, ma è una direzione certa di sviluppo del mercato. In questo senso un importante trend del mondo gaming è quello delle microtransazioni: paghi meno il ticket ma poi durante l’esperienza di gioco hai tante occasioni per tornare a spendere per comprare determinati potenziamenti, nuovi livelli, nuovi personaggi, estensioni del gioco». È un cambio importante di modello. Un elemento è quello di provare in questo modo a fidelizzare l’utente: «Io ti do accesso a più titoli, ti faccio pagare meno il singolo videogioco, però offro prodotti che ti permettono di trascorrere più tempo all’interno del gioco e di utilizzare altri giochi che ti ho offerto, quindi ti sto tenendo ancorato a me. Significa cercare di trovare soluzioni che fanno sì che l’utente non vada da un competitor. Anche l’abbonamento solitamente serve a questo, serve anche a far sì che l’utente senza pensarci lo rinnovi, però a quel punto bisogna cercare soluzioni per aumentare la capacità di spesa dell’utente».
Nella seconda parte del 2021 sono aumentati i canoni di alcuni abbonamenti, come per esempio quelli di Netflix (standard da 11,99 euro al mese a 12,99 euro al mese e premium da 15,99 euro al mese a 17,99 euro al mese) e DisneyPlus (abbonamento mensile dagli originali 6,99 euro agli attuali 8,99 euro). Questo, però, non ha frenato la crescita dei fruitori. Per quanto riguarda invece le piattaforme gratuite, il leader incontrastato rimane YouTube, che propone contenuti video e playlist musicali.
Francesca Campanini