Che il biologico fosse ben più di un sistema di coltivazione è evidente da tempo, il potenziale del suffisso “bio” è trasversale e riguarda tanto frutta e verdura quanto i prodotti compostabili, rispettosi dell’ambiente. Bio sono, per intenderci, i sacchetti che usiamo per i rifiuti e anche il cotone delle lenzuola che compriamo al centro commerciale. Non ci deve stupire quindi che anche i distretti, storicamente legati a settori omogenei per produzione e geografia del fare artigianale e industriale, vedano una loro declinazione in “bio”. Il termine Biodistretto non è casuale, a registralo infatti è stata la rete Aiab, l’associazione italiana dell’Agricoltura biologica che lo concepisce come «un patto per lo sviluppo green del territorio, sottoscritto dai produttori biologici, dalle amministrazioni locali e da ambiti della società civile coinvolta». Un patto che sottende a una visione del biodistretto come uno strumento partecipativo e dal basso per creare sviluppo per l’economia locale, contrastando fenomeni annosi e dannosi come lo spopolamento delle campagne offrendo un’alternativa all’agricoltura intensiva, magari sviluppando filiere integrate con turismo e artigianato. Aiab in Italia enumera 23 distretti, dalla Val Camonica bresciana ai Borghi Sicani agrigentini, passando per il Canavese in Piemonte e il Chianti in Toscana. Nel 2020 le Murge, nel Barese, si sono rese protagoniste di un percorso definito CuBiCo, cioè impernato su cultura, biologico e comunità utile a capire il funzionamento di un biodistretto. Uno dei principali temi trattati, infatti, è stato l’impatto sociale del biologico attraverso la cosiddetta “ristorazione collettiva” che conosciamo soprattutto sotto forma di mense aziendali e scolastiche. È proprio attraverso questo canale che i prodotti biologici del territorio possono raggiungere più facilmente le nostre tavole e non è raro che la loro presenza nei capitolati degli appalti per la refezione scolastica preveda un punteggio maggiore in fase concorsuale. Chi nel piatto mette il biologico, insomma, negli appalti pubblici vede riconosciuto il suo impegno. In Veneto uno degli ultimi nati (nel 2017) è il BioAltopiano, il distretto di Asiago frutto del progetto di Andrea Rigoni, presidente e amministratore delegato dell’omonimo marchio leader nel mercato delle creme spalmabili e delle confetture biologiche. La commistione tra la grande azienda specializzata e le piccole produzioni è il vero valore aggiunto, come spiegava lo stesso Rigoni in un’intervista rilasciata per i cento anni dell’azienda di famiglia: «È questo il futuro sia per la tutela che per la valorizzazione del territorio in chiave turistica e culturale». BioAltopiano vuole rappresentare in forma sostenibile e univoca l’intero “sistema altopiano” costituito da diverse figure e realtà: agricoltori biologici (circa 430 aziende), pubbliche amministrazioni, imprese del settore della ristorazione e del settore ricettivo, associazioni agricole e turistiche, privati cittadini e turisti, università e centri di ricerca, scuole del territorio e imprese dell’artigianato. Il BioAltopiano intende inoltre favorire la conversione al biologico delle malghe che potrebbe accrescere e valorizzare le produzioni lattiero-casearie locali oltre ad aumentare l’immagine turistica paesaggistica del territorio. Recente è anche la costituzione del Biodistretto Terre bellunesi che dal 2021 ha raccolto oltre 290 adesioni e una cinquantina di proposte per tenere insieme lo sviluppo rurale, agricolo con le sfide dell’attualità. Ma è sui Colli Euganei che si è venuto a creare nel 2016 il biodistretto padovano, il più centrale dei sei che collocano il Veneto tra le principali regioni per diffusione dei distretti, dove si enumerano realtà attive anche – se non soprattutto – nella produzione vitivinicola. Con 1.385 ettari di superficie biologica, oggi fanno più di 50 soci tra associazioni, aziende, esercizi e università. Tra i sostenitori del si contano anche quattro Comuni.