Si tratta delle novità introdotte dal ddl Lorenzin del 2017, e confluite nella legge numero 3 dell’11 gennaio 2018, la quale prevede la predisposizione di un piano organico volto alla diffusione di una medicina attenta alle differenze per sesso e genere, in modo da garantire la qualità e l’appropriatezza delle prestazioni erogate dal Servizio sanitario nazionale. Con la legge del 2018, e i successivi decreti attuativi, fino al recente piano formativo specifico dell’anno scorso, la medicina di genere è diventata ormai materia di insegnamento trasversale in tutti i corsi delle scuole di medicina e professioni sanitarie, ma non solo. Come ci spiega la dott.ssa Patrizia Burra, gastroenterologa e prorettrice alla formazione post lauream presso l’Università di Padova, la medicina di genere coinvolge molte scuole di specializzazione, come per esempio quelle delle scienze psicologiche. Basti pensare agli effetti della pandemia che ancora si manifestano con il long-Covid, un fenomeno che colpisce maggiormente le donne in età fertile e quindi legato alla fase ormonale; oppure la diversa mortalità registrata tra uomini e donne nella fase acuta. «È ormai un dato di fatto che certe malattie colpiscano in modo differente a seconda del genere: nei miei trent’anni di esperienza ho riscontrato che le malattie autoimmuni colpiscono prevalentemente le donne, mentre per esempio il tumore al fegato riguarda soprattutto i maschi. Questo ci porta a una grande attenzione come docenti universitari e medici nel diversificare malattie e rispettive cure in base al genere». In questo contesto è molto importante anche l’impegno divulgativo, poiché si tratta di aspetti in continua evoluzione, perciò esistono reti di collegamento internazionali tra le varie società scientifiche che si occupano di malattie di genere: «Il contributo di quanti appartengono a gruppi di ricerca è fondamentale, per questo diffondiamo le ricerche con pubblicazioni frequenti ma non solo: la Società italiana di gastroenterologia, per esempio, ha avviato un’indagine in collaborazione con l’Istituto superiore della sanità, raccogliendo i dati di oltre quattrocento dottoresse che hanno aderito». Da questo capiamo che la presenza femminile in aumento, anche in ambito medico, sta facendo la differenza, anche se i numeri evidenziano ancora una massiccia prevalenza maschile: «Nella mia categoria di professore ordinario per le malattie dello stomaco, fegato e intestino, in Italia gli uomini ricoprono ancora l’80 per cento delle cattedre – spiega Patrizia Burra – tuttavia negli ultimi sei anni noi donne siamo raddoppiate». Se guardiamo le iscrizioni in ateneo il gap tra maschi e femmine non si vede più rispetto a decenni addietro, però la forbice si allarga proprio in corrispondenza della carriera e dei ruoli apicali: se nei ricercatori c’è ancora un numero di parità tra i sessi, i professori associati contano invece un 70 per cento di presenza maschile, che cresce ancora di più nei ruoli più alti. La differenza è più o meno ampia anche a seconda delle specialità, con prevalenze maschili in quelle che implicano scelte di vita più impegnative. «Per una donna è ancora difficile dedicare tutto alla carriera – sostiene, infine, Patrizia Burra – ma l’importante è che vengano garantite le condizioni di parità, sia nell’accesso alle cariche che nelle retribuzioni, e su questo posso dire che sono stati fatti molti progressi».
La nostra Regione ha un ruolo di capofila in questo contesto, poiché già dal 2009 ha creato un Centro studi nazionale su salute e medicina di genere, grazie a una collaborazione tra l’Università di Padova e la Fondazione Giovanni Lorenzini di Milano. È stato in particolare il dipartimento di Medicina molecolare patavino a dare vita, nel 2012, alla prima cattedra in Italia di medicina di genere, intitolata a Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, e affidata alla prof.ssa Giovannella Baggio.