Negli stessi giorni in cui l’Italia faceva incetta di medaglie nella spedizione olimpica giapponese, il Veneto nasceva la “Consulta psicologia dello sport, dell’esercizio fisico e del benessere”, un team di dieci psicologi istituito dall’ordine regionale e coordinato dalla vice presidente, Fortunata Pizzoferro. Una necessità, rapportata a livello internazionale dove sempre più federazioni e società sportive si avvalgono della collaborazione di psicologi e psicologhe, considerati essenziali risorse di affiancamento nei percorsi di allenamento.
«Negli ultimi 20-25 anni la situazione è andata evolvendosi positivamente – ammette Michele Modenese, psicoterapeuta esperto in psicologia dello sport e membro della consulta – Avvertiamo una migliorata sensibilità del tecnico, del dirigente e dello stesso genitore a rivolgersi a figure che possono dare sostegno e supporto non solo legati alla performance e al risultato, ma a seguire il giovane atleta nella sua crescita. Tuttavia non c’è una legge che regolamenta o obbliga le realtà sportive a “dotarsi” di uno psicologo».
Allo stato attuale, la presenza dello psicologo quando entra “in gioco”? «Nella maggioranza dei casi, e si rileva un limite, la richiesta avviene quando c’è un problema: una grossa difficoltà nel gestire i genitori in una squadra di calcio o di basket; davanti a un atleta adolescente talentuoso che in allenamento vale cento, ma in gara non arriva a dare il 50 per cento. E poi ci sono dinamiche di gruppo, come la richiesta di aiuto per facilitare l’inserimento di membri nuovi che dal nostro punto di vista è un elemento davvero critico per l’atleta che viene inserito ex novo in una realtà societaria e di squadra che non conosce. Gli stessi compagni vedono arrivare il piccolo campioncino e si domandano se questo porterà via il posto a uno di loro. Altro aspetto da non trascurare, il nostro supporto può facilitare il reinserimento dopo un infortunio: c’è molta medicalizzazione, giustamente, ma viene trascurata la parte psicologica ed emotiva che invece faciliterebbe il recupero».
Lo sport viene spesso associato al successo: si elogia il vincente, ma chi perde viene visto come “fallito”. L’atleta come si supporta psicologicamente nella sconfitta che poi rischia di essere non solo sportiva, ma anche nella vita?
«È il problema delle aspettative. E se saliamo di livello ci ritroviamo anche con giornali sportivi che dimenticano, per esempio, che essere anche solamente a una finale di un’Olimpiade è da considerare un successo. Questo è un discorso molto ampio, ci sono molte differenze tra il giovane atleta e l’atleta più evoluto o che sta vivendo la parabola discendente. Generalmente per i giovani atleti è importante aiutarli a perdere: è paradossale, i genitori mi guardano perplesso, non è favorire l’insuccesso, ma prepararlo a questa possibilità. Non solo, le esperienze di perdita e insuccesso bisogna farle diventare momenti di crescita sportiva, ma anche umana. Ha un grosso valore elaborare la sconfitta e filtrare quegli elementi che possono essere utili per crescere anche nella vita».
Capita di ritrovarvi per mano ragazze e ragazzi che smettono di fare sport a causa di pressioni familiari o individualismi tra colleghi e compagni?
«Succede, non dico che sono all’ordine del giorno, ma sono fattori comuni. Qualche mese fa una giovane atleta, una promessa a livello nazionale, mi ha confidato di sentirsi in debito costante nei confronti dei suoi genitori, una sensazione che la schiaccia e la opprime: spendono soldi, sono sempre in viaggio per farla partecipare alle gare in giro per l’Italia e sente sulle sue spalle un carico eccessivo. E poi soprattutto ci sono situazioni legate all’aspettativa del risultato: il coach che si aspetta un numero determinato di punti o di gol, o il genitore che pretende di avere un figlio o una figlia performante. Anni fa ho conosciuto una tennista di 14 anni in una condizione d’ansia terribile e al suggerimento di riflettere se farla allenare e non farla partecipare a tornei stressanti in funzione del suo benessere, il padre mi ha risposto “io ho speso un sacco di soldi e vorrei che mi rendesse”. Ecco, questa è una cattiva abitudine che va rimossa».
La riflessione di Michele Modenese si sofferma sulla parte emozionale da “allenare” in un atleta al pari della parte tecnica. E insiste: «Non aspettare che nasca il problema o il drop-out, cioè l’abbandono a causa di una conflittualità perché poi è difficile ricomporre un buon clima e una serena atmosfera».