Francesco Jori, firma apprezzata del giornalismo veneto, aggiunge un altro tassello importante per conoscere e comprendere la storia della nostra società e del nostro territorio. E guardare magari al presente con uno sguardo diverso e maggiormente consapevole. È uscito da poco in libreria, per le edizioni Biblioteca dell’immagine di Pordenone, il suo ultimo lavoro Andemo in Merica. Veneto e Friuli, un secolo e mezzo di migrazione di massa. Il volume, corredato da ampia documentazione fotografica, presenta al vasto pubblico una sintesi preziosa di tanti lavori di ricerca su una pagina di storia che tante volte sembriamo non voler ricordare e che invece è quantomai importante oggi tenere presente, ovvero quella della migrazione Veneta verso le Americhe. Un vero fenomeno di massa che segnò le nostre campagne. Una pagina dolorosa. Una vera epopea spesso dimenticata o misconosciuta.
Jori, lei non è nuovo a lavori di ricostruzione storica. Come nasce questo suo ultimo volume?
«Da un anniversario. In molte zone del Brasile sono in corso grandi festeggiamenti per ricordare i 150 anni dei primi arrivi di migranti veneti nella regione del Rio Grande do Sul. Se vogliamo il 1875 è una data convenzionale. Veneti ne erano arrivati anche prima, ma da quell’anno il fenomeno si fece, per almeno trent’anni, intenso e regolare. In Brasile i cittadini di origine veneta hanno conservato una memoria vivissima delle loro radici. Purtroppo non possiamo dire che altrettanto vivo sia da noi il ricordo della loro partenza».
Eppure le cifre dell’immigrazione veneta a fine ‘800 sono davvero impressionanti.
«Si calcola che tra il 1875 e il 1900 dal Veneto (che all’epoca comprendeva anche Udine e alcuni territori dell’attuale Friuli), partirono più di un milione di persone. Il 35 per cento del totale dei migranti italiani dell’epoca. Il triplo di quelli partiti dalla Campania. In alcuni paesi del Trevigiano e del Polesine (le due province maggiormente interessate dal fenomeno) emigrò la metà degli abitanti».
Quali furono le ragioni di un esodo così massiccio?
«Con il passaggio dall’Austria al Regno d’Italia le nostre campagne precipitarono nella miseria più assoluta. Ai problemi legati a una gestione delle proprietà agricole antiquata, ai grandi latifondi si aggiunsero l’odiosa tassa sul macinato imposta dai Savoia e l’arrivo di cereali a basso costo da Stati Uniti e Russia. I nostri contadini si trovarono davvero alla fame, tanto da essere definiti bisnenti, cioè “due volte niente”. Per non morire di fame si imbarcavano e partivano con tutta la famiglia».
Un sogno che si tramutava però presto in un incubo…
«In Brasile era finita la schiavitù degli afroamericani. C’era bisogno di manodopera a basso costo. Degli agenti di emigrazione senza scrupoli giravano per i paesi promettendo un radioso avvenire. Ma la realtà era molto diversa. Già a partire dal viaggio: settimane stipati nelle stive delle navi in condizioni inimmaginabili, con scarso cibo e acqua spesso non potabile. Molti morivano durante la traversata. Poi, una volta giunti a destinazione i campi di quarantena e poi un lavoro al limite della schiavitù. Chi poteva contare solo sulla forza delle proprie braccia veniva privato del passaporto e con esso della propria libertà per lunghi periodi. Impressiona che i giornalisti dell’epoca già parlarono di “trafficanti di esseri umani” e di “squallidi mercati sulla loro pelle”».
I Veneti si sono dimenticati di essere stati migranti?
«Purtroppo sembra di sì. Non pochi, quantomeno. Dimentichiamo di essere stati noi nella condizione di chi oggi tenta di attraversare il mare per venire da noi spinto dalla fame. Ma dimentichiamo anche che tutta la nostra storia è frutto di flussi migratori. Conoscere questa storia dovrebbe aiutarci ad avere un atteggiamento diverso nei confronti dei migranti che arrivano da noi. La verità è che ci fanno comodo al lavoro nelle fabbriche, ma poi pretenderemmo di non vederli in giro. È esattamente quello che patirono i nostri avi che andarono in Brasile o in Argentina».
Alcuni però riuscirono a fare fortuna…
«Ci sono volute generazioni, ma alla fine la laboriosità tipicamente veneta insieme a un grande spirito di adattamento hanno portato frutto. Oggi in Brasile sono almeno 5 milioni le persone di origine veneta. Hanno una loro lingua, il talian un misto di portoghese e dialetti veneti dal suono arcaico. Hanno tenuto vive tradizioni culturali e religiose. Alcuni da contadini sono diventati artigiani e poi industriali dando vita a vere multinazionali. Nel libro racconto alcune di queste storie, di resilienza e riscatto».
Nel libro lei sottolinea molto la vicinanza della Chiesa cattolica ai migranti.
«È qualcosa di commovente. Vi furono parroci che decisero di partire con i loro parrocchiani. Mons. Giovanni Battista Scalabrini fondò un apposito ordine religioso tra i cui pionieri va ricordato don Pietro Colbacchini di Bassano del Grappa. Per i migranti nel Nord America si prodigò madre Francesca Cabrini. Le comunità di migranti si organizzarono sempre attorno ad una chiesa».
Il libro è corredato da un ampio repertorio fotografico. Cosa ci restituiscono quei volti dei nostri avi di fine ‘800?
«Sono tutti eleganti, perché i fotografi prestavo i vestiti per fare bella figura nel mandare le foto a casa. Ma i loro volti sono simili a quelli dei migranti che arrivano tra noi oggi: nei loro occhi c’è una tristezza infinita e la nostalgia di casa. Come fu per i nostri nonni, nessuno parte volentieri. Rischi la vita solo se non hai alternative. Questo non dovremmo mai dimenticarlo».
Il volume ricostruisce una lunghissima storia fatta di faticose conquiste, che parte dagli sbarchi iniziali del 1875 e arriva ai nostri giorni. Dentro c’è non tutto ma di tutto: la miseria del Veneto e del Friuli dell’epoca; le false lusinghe con cui veniva arruolata la povera gente; il drammatico viaggio attraverso l’Atlantico; le condizioni proibitive; la lingua mai dimenticata.