Chiesa
“Rabbuna Fi – Dio c’è”. È il grido di fede e speranza che accompagna la missione di fr. Federico Gandolfi, frate minore, in Sud Sudan dal 2015. Nel Paese più giovane dell’Africa, ancora segnato da conflitti, povertà e mancanza di servizi essenziali, la vita quotidiana si intreccia con drammi e piccoli miracoli. Dalle parrocchie immense ai campi per sfollati, dai pozzi ripristinati ai giovani di strada accolti e sostenuti, fr. Federico racconta una Chiesa giovane e viva, che sa farsi prossima con gesti concreti di fraternità evangelica.
Quando è arrivato in Sud Sudan?
Sono entrato in Sud Sudan dopo nemmeno cinque anni dalla sua indipendenza, proclamata il 9 luglio 2011. Quando arrivai, il Paese era già devastato da una tremenda guerra civile iniziata nel 2013, che aveva causato migliaia di morti, un numero ancora maggiore di profughi e la nascita di campi per sfollati grazie all’intervento umanitario delle Nazioni Unite.
Che esperienza pastorale ha vissuto nei primi anni?
Nel 2016 sono diventato parroco di un grande territorio parrocchiale al cui interno si trovava un campo per sfollati, allora chiamato PoC – Protection of Civilians Camp. Tra le trenta e le quarantamila persone vivevano ammassate in un labirinto di tende di plastica, sostenute dalle Nazioni Unite e dal Programma Alimentare Mondiale. Una situazione drammatica, ma non priva di piccoli miracoli quotidiani: i “buoni samaritani” che operano silenziosamente, lontani dai riflettori, sono come lievito e sale che rendono il mondo migliore. Le parrocchie hanno un’estensione enorme, alcune sono più grandi di intere diocesi italiane. Per visitare tutti i centri servono settimane di viaggio. La domenica percorriamo anche sette-otto villaggi in macchina: la gente attende con gioia la visita del sacerdote, non per i beni materiali, ma per la Parola di Dio e la benedizione. L’accoglienza è sempre straordinaria.
Dopo sette anni a Juba, è stato trasferito a Wau. Cosa ha trovato lì?
Sono stato inviato nella diocesi di Wau, nel nord del Paese, in una parrocchia dedicata a san Kizito, molto venerato in questa terra. È una comunità nel cuore della foresta. Per raggiungerla bisogna viaggiare più di un’ora su strade sterrate. Qui la gente vive di coltivazioni, di caccia e della produzione di carbone, trasportato a fatica da uomini di tutte le età. Nelle cappelle della foresta la liturgia si celebra spesso nelle lingue tribali. Quando i missionari provano a pregare in queste lingue, i bambini si stupiscono e si interrogano: vedono un Dio che si incarna ancora di più nel loro vissuto.
Che ruolo hanno la scuola e la formazione?
L’istruzione è molto carente. Nella maggior parte dei villaggi la scuola arriva solo alla sesta classe elementare: mancano gli ultimi due anni e del tutto la scuola superiore. Chi può si sposta in città, ma molti restano per lavorare la terra e aiutare la famiglia. Nonostante la durezza della vita, non ho mai visto persone tristi: la sofferenza si esprime nei funerali, che durano giorni, ma poi la vita riprende con forza e speranza.
Quali sono le principali difficoltà quotidiane?
La mancanza di assistenza sanitaria e di acqua. Se ci si ammala, si spera nella guarigione, ci si affida ai guaritori locali e alle benedizioni. Molte donne e bambine percorrono ore al giorno per portare acqua dai pozzi. Come frati, abbiamo scelto di lavorare proprio su questo: ripristinare i pozzi e facilitare la vita delle famiglie.
E i giovani, come vivono questo contesto?
Molti vanno via: alcuni per studiare in città, altri perché arruolati. Il fenomeno dei bambini soldato purtroppo esiste ancora. La guerra in Sud Sudan si intreccia con dinamiche tribali, politiche e con l’interesse internazionale per le risorse naturali.
Qual è il volto della Chiesa cattolica in Sud Sudan?
È una Chiesa giovane, poco più che centenaria, ma molto viva. Ci sono vocazioni locali e una forte presenza missionaria. La Chiesa serve attraverso scuole, ospedali, cliniche, centri di formazione e anche servizi nascosti, come l’accompagnamento dei ragazzi di strada. Nel 2017 è nato il gruppo PGP – Peace and Good People: giovani volontari locali che si dedicano al primo soccorso e all’ascolto dei ragazzi di strada. Un’iniziativa che non solo aiuta chi è più fragile, ma trasforma i cuori di chi vi partecipa, perché supera il tribalismo e insegna la fraternità evangelica. Abbiamo vissuto momenti di dolore, accompagnando giovani morti per malattie o violenze, ma anche esperienze di riscatto: ragazzi che hanno chiesto di studiare o di riconciliarsi con la propria famiglia. Grazie al sostegno dell’Italia, siamo riusciti a rispondere a molte di queste richieste.
C‘è un messaggio che può riassumere la sua esperienza missionaria?
Rabbuna fi – Dio c’è. Dove c’è anche una sola persona, Dio si fa presente. In Sud Sudan vedo migliaia di semi di speranza: giovani che, nonostante le difficoltà, sanno sorridere e desiderano un futuro migliore. È il Paese più giovane dell’Africa, ma anche una terra in cui il Vangelo continua a fiorire.