Idee | Pensiero LiberoPerché a noi italiani il futuro fa così tanta paura? Davvero, provando a guardarlo in faccia, scorgiamo più fatica, incertezza, rischio rispetto a vita, opportunità, condivisione?
Domande che nascono gettando uno sguardo all’ultimo rapporto Istat che, lunedì scorso, ha messo (ancora una volta) nero su bianco il calo della natalità nel nostro Paese – appena 370 mila i nuovi nati del 2024 – e la propensione a lasciare l’Italia per costruirsi un futuro altrove: lo scorso anno l’hanno fatto in 156 mila connazionali con un aumento record del 36,5 per cento sull’anno precedente. Tra gli ultimi indicatori demografici, ci sono anche notizie positive come l’aumento dell’aspettativa di vita (pari ora a 83,5 anni, con cinque mesi in più sul 2023) e l’aumento dei neo cittadini italiani, con 217 mila acquisizioni della cittadinanza italiana che ha superato il record di 213 mila sempre del 2023. Tuttavia, a balzare agli occhi c’è quell’1,18 nella media di figli nati per donna che abbassa il minimo, fissato prima all’1,19 del 1995, anno in cui però erano nati 526 mila bambini, 156 mila in più rispetto a oggi. L’imprenditore Ambrogio Della Rovere – che recentemente ha donato la sua casa natale di Thiene perché diventi una comunità educativa e riabilitativa per adolescenti con gravi patologie psichiatriche – ha raccontato che in 25 anni ha fondato uno dei primi nidi aziendali nel Veneto, lo ha visto arrivare a 28 piccoli frequentanti, per chiuderlo lo scorso anno quanto era rimasta una sola bambina. Rimanendo sotto quota 1,2 figli per donna – ha detto il demografo dell’Università Cattolica Alessandro Rosina al Messaggero – rischiamo di entrare in una spirale irreversibile nella quale aumentano i costi per l’assistenza agli anziani e si inaridisce il panorama delle opportunità per i giovani, con la conseguenza che rimarranno i primi per veder partire i secondi, come sta avvenendo nelle aree interne del Paese, che anticipano le tendenze generali oggi solo accennate nei grandi centri. A soffrire per davvero, negli anni a venire, saranno quindi le imprese e il welfare. Le prime – e non è certo una novità – non trovano personale e quindi sono spinte a una delocalizzazione forzata che nulla ha a che vedere con quella degli anni Novanta. Il secondo patisce già oggi uno squilibrio che promette di accentuarsi fino a rendere impossibile il pagamento di pensioni e servizi: tra i partenti, non sono pochi i sanitari che trovano facilmente ambienti di lavoro meno stressanti e remunerazioni più alte oltre confine. Per non parlare di scuole e università, le cui aule saranno sempre più vuote laddove non chiuse. La denatalità, piaccia o meno, è il vero elefante nella cristalleria in Italia. Senza una ripresa della popolazione è l’intero sistema che rischia di saltare. Possiamo osservare la questione dal punto di vista culturale o della propensione personale, ma la genitorialità ha risvolti socio-economici che non possiamo più ignorare. Rosina sostiene che urgono politiche di investimento sulle nuove generazioni, che sintetizza in accesso stabile al mondo del lavoro, salari adeguati, valorizzazione del capitale umano, politiche abitative, strumenti di conciliazione vita-lavoro. Sulla stessa linea anche il presidente del Forum nazionale delle associazioni familiari, Adriano Bordignon: «Urgono politiche strutturali, generose e universali orientate a famiglia e giovani. In tal senso, serve il coraggio, l’unità e la capacità di programmare per fare, da subito, le scelte operative conseguenti, considerando la spesa per far crescere il figlio, non come un costo individuale ma come investimento per il futuro dell’intera comunità». E torniamo così dove eravamo partiti, cioè al nostro rapporto con il futuro. Da questo punto di vista non è secondario ricordare che viviamo un anno giubilare dedicato alla speranza e sperare – ha scritto il domenicano francese Adrien Candiard, significa «credere che Dio ci rende capaci di porre atti eterni». Tra questi c’è anche progettare un futuro possibile.
