Chiesa
“La speranza era che dopo gli attacchi dei giorni scorsi, non accadesse altro. E invece così non è stato”: a parlare al Sir padre Igino Sistilli, responsabile della Comunità cattolica di espressione ebraica di Haifa che vede al suo interno persone originarie della Russia, Ucraina, arabi israeliani, lavoratori stranieri, tra i quali molti filippini. Una comunità di almeno 40 persone, molto variegata che ben riflette l’ambiente di Haifa, “città aperta e piena di gente di tutto il mondo”. La Kehilla (comunità, ndr.) è storica: è stata fondata padre Daniel Rufeisen, ebreo polacco e monaco carmelitano, immigrato in Israele a metà degli anni ’50, noto per aver salvato centinaia di ebrei durante la Shoah. Per questo è ricordato nel memoriale dell’Olocausto, lo Yad Vashem, a Gerusalemme.
Bersaglio dei missili iraniani. Haifa, importante porto e centro industriale dello Stato di Israele, è tra le più prese di mira dai missili iraniani dal 13 giugno scorso, giorno dello scoppio della guerra, insieme alla capitale Tel Aviv e Beer Sheba. Il 20 giugno una salva di 25 missili aveva provocato 23 feriti di cui tre gravi, compreso un sedicenne colpito dalle schegge. Danni e feriti si erano registrati anche alla locale moschea Al-Jarina. Il 16 giugno era stata colpita una raffineria situata nella baia con un bilancio di tre morti tra i dipendenti della struttura. Il giorno prima era stata una famiglia di 5 persone a perdere la vita nell’attacco alla cittadina arabo-israeliana di Tamra, nei pressi di Haifa.
Tra paura e condivisione. Una speranza disattesa per la gravità degli eventi, l’ultimo, in ordine di tempo, la decisione del presidente Usa Trump di attaccare i siti nucleari della Repubblica islamica. “Da venerdì 13 giugno – racconta padre Igino, di chiare origini italiane, “vengo da Giulianova” rivela – ho dovuto cancellare tutte le attività parrocchiali. Nei primi giorni, infatti, ci sono stati attacchi molto forti sulla città e siccome nella zona dove abbiamo la nostra cappella non c’è un rifugio, per motivi di sicurezza ho sospeso tutte le attività. E visto che i fedeli non possono venire in chiesa sono io ad andare da loro”. Dall’inizio della guerra e fino al 19 giugno padre Igino ha fatto visita, casa per casa, praticamente a tutti i suoi fedeli, e anche ad alcune persone della Colombia suoi conoscenti.
“Sto con loro – spiega – preghiamo, li ascolto, porto la Comunione, confesso, e ho anche celebrato nelle case quando me lo hanno chiesto. È un tempo di condivisione nel quale ti confidano le loro preoccupazioni per il futuro. Ma qui la gente è forte, resiliente e ha un atteggiamento sempre aperto al dialogo, al confronto, all’aiuto reciproco”.
“I nostri fedeli di lingua ebraica sono israeliani – sottolinea – vivono al 100% immersi nell’ambiente ebraico israeliano, hanno le loro opinioni su quanto accade, ma nonostante le idee politiche, le diversificazioni mantengono un atteggiamento di apertura. Da questo punto di vista – aggiunge – la fede cristiana ci è molto di aiuto proprio per tenere aperto il cuore alla speranza e alla pace che tutti sperano possa arrivare presto”.
Preghiere on line. Intanto la vita pastorale prosegue anche on line, rispolverando l’esperienza vissuta durante il Covid. “Sabato 21 giugno abbiamo celebrato una liturgia della Parola, spezzato ‘il pane’ della Parola, non potendo ricevere quello vero, l’ostia consacrata, nella solennità del Corpus Domini. Da questa settimana cercheremo di ampliare il nostro impegno on line e rendere più regolari le celebrazioni. Tra le comunità ebreofone c’è già chi trasmette il Rosario e la messa su piattaforme come Zoom. Siamo poi in contatto con il nostro Vicariato di San Giacomo, che fa capo al Patriarcato latino di Gerusalemme, per sostenere i fedeli, almeno quelli più colpiti dagli attacchi”.