Idee | Lettera.D
Sessant’anni fa – l’8 dicembre – si chiudeva il Concilio Vaticano II, l’evento religioso più significativo del 20° secolo. Non un anniversario tondo, si direbbe, rispetto a cinquanta, settantacinque o cento,
ma significativo perché coloro che erano stati i protagonisti di questo evento, vescovi e teologi, non ci sono più e noi ne siamo diventati a buon diritto gli eredi. Ma cosa significa essere eredi del Concilio? Come beneficiare di questa eredità?
Visto gli anni che intercorrono tra questo evento e noi, si sarebbe portati a pensare che sia un “oggetto” da museo, un fatto del passato che non ci riguarda più direttamente e di cui conosciamo alcuni suoi provvedimenti, soprattutto in ambito liturgico; penso all’uso delle lingue volgari nelle azioni liturgiche o come dice la gente “il prete che non dà più le spalle all’assemblea”. Per qualcun altro saremmo eredi di alcune sue affermazioni teologiche che, per chi studia teologia, non si possono tralasciare e che si sono aggiunte ai vari manuali. È un’eredità difficile per chi sostiene che questo Concilio sia la causa di tanti mali della Chiesa, vuoi il calo delle vocazioni o la perdita del senso sacrale della liturgia, per dirne qualcuno. Se le cose stanno così, viene da chiedersi, cosa ne è di questo Concilio? Se Giovanni Paolo II all’inizio di questo millennio l’ha indicato come bussola sicura per orientare il cammino della Chiesa,
che valore dargli? Dal momento che non sono stati segnalati un punto determinato o un’indicazione precisa da seguire alla lettera, ma come realtà in se stessa, viene da domandarsi: cosa si conosce veramente di questo Concilio per essere “bussola sicura”?
Al di là degli studi storici e delle interpretazioni sulla continuità o meno del Vaticano II con la Tradizione della Chiesa, ritengo fondamentale mettere in luce la domanda di fondo che stava alla base della sua convocazione e che è più che mai attuale anche per noi: come proporre in modo significativo il Vangelo all’uomo e alla donna di oggi?
Questo Concilio, che ha assunto la qualifica di “pastorale”, e per questo spesso frainteso e svalutato, si è prefigge di avvicinare le persone, nella situazione che stanno vivendo, per annunciare loro la parola di salvezza. È il suo modo di fare teologia che lo contraddistingue da tutti gli altri Concili della storia. Nessuna eresia da combattere, alcuna grave situazione interna alla Chiesa che ne richiedesse un’urgente convocazione, ma il prendere atto che la vita cristiana era sempre meno significativa per le persone sollecitava un’azione ecclesiale sinodale. Ed ecco che la Chiesa, come sollecita l’allocuzione di inizio – Gaudet Mater Ecclesia dell’11 ottobre 1962 – si riunisce in Concilio non tanto per mettere in discussione o cambiare il deposito della dottrina, ma per fermarsi e per approfondire e presentare fedelmente le verità di fede secondo quanto richiesto dai tempi.
Non è stato immediato per i padri conciliari assumere questa prospettiva, visto che era più facile emettere sentenze o proporre d’autorità delle decisioni; ma la dimensione pastorale richiedeva una conversione da apprendere gradualmente, che comportava l’assumere seriamente le questioni che interpellavano il vissuto e di conseguenza la Chiesa, approfondirle, comprenderle, avendo presenti le persone che erano coinvolte, per poter donare loro una parola di Vangelo che fosse di speranza e che rivelasse il volto di Dio che ha cura delle sue creature.
A mio parere, ricordare il Vaticano II non si pone sulla linea di cosa manchi alla sua completa attuazione – forse la lista potrebbe essere lunga e domandarsi il perché di questo ritardo sarebbe legittimo – ma ritengo più che mai che il Concilio ci insegni, alla luce della sua stessa esperienza, a essere Chiesa che annuncia il suo Signore. Paolo VI, nel discorso di chiusura del 7 dicembre 1965, interpretava l’assise conciliare come un “atto kerigmatico”, un’occasione in cui la Chiesa, rispecchiandosi in Cristo e lasciandosi ridare la forma originaria da lui, si è ridata slancio per proclamare a ogni uomo la salvezza, considerandolo nel suo contesto e cercando di venire a dialogo con lui, di assumere le sue domande profonde e allo stesso tempo di farsi capire. Un apprendimento di un modo di essere Chiesa che ha del sorprendente, se la Chiesa – nel momento in cui, solennemente riunita in Concilio, mostrava la sua massima autorità – ha saputo esprimersi e comunicare con lo stile del dialogo e con la voce amica e fraterna le verità di fede, facendosi capire dai credenti e dagli uomini di buona volontà, dai dotti e dai semplici. Tener viva l’eredità del Concilio è un must della Chiesa di oggi, perché rinveniamo quel modo teologico che si offre a noi per affrontare la domanda imprescindibile e sempre attuale su come annunciare il Vangelo oggi. I padri al Concilio l’hanno presa sul serio e hanno percorso dei passi iniziali. A noi, Chiesa di oggi, l’umiltà di continuare il lavoro pastorale del Vaticano II.