IdeeCristiano Dorigo operatore sociale e scrittore, si impegna da trent’anni per condurre decine di ragazze maltrattate fuori dal tunnel della disperazione
I mmaginiamo che la porta della nostra casa, anziché introdurci nel nido nel quale trovare gli affetti più profondi e costruire le nostre certezze, si spalanchi su un incubo quotidiano fatto di violenza e demolizione del nostro io: è quanto è accaduto alle ragazze di cui lo scrittore Cristiano Dorigo parla nel suo libro dal titolo Acque alte (Meligrana Editore, pp. 170, euro 15) pubblicato lo scorso mese di marzo. È un libro complesso e accattivante, nel quale l’acqua alta che invade la città di Venezia, isolando i suoi abitanti per una settimana, è molto di più della conseguenza di fenomeni atmosferici e condizioni idrogeologiche: è metafora della condizione umana e sociale complessa che ha segnato la vita di quelle che Dorigo chiama, con affetto, “le mie ragazze”. Ogni giorno, lui condivide il loro dolore. E racconta senza raccontare, non si addentra nei particolari del dolore per darli in pasto al lettore come fossero indizi di un giallo da risolvere, ma ricerca tratti di normalità dentro alla trama di storie che non sono normali. Alle ragazze attribuisce nomi di fiori. Una scelta che non è letteraria, ma umana, e che esprime una delicatezza e un rispetto infinito per il loro essere donne. In che cosa consiste, in concreto, il suo lavoro quotidiano con queste ragazze? «Innanzitutto, vorrei specificare una cosa: questo non è un libro autobiografico, ma la trasposizione letteraria di esperienze realistiche. Si tratta di una definizione sottile, quasi impalpabile, ma ci tengo a sottolinearlo in quanto il rischio è, trattandosi di argomento delicato, di affrontare solo l’argomento, quasi dimenticando che si tratta di un romanzo. Il lavoro quotidiano con le ragazze, che di solito vengono inviate dalle comunità per minori su mandato dei Servizi sociali, è basato su obiettivi che si concordano insieme, rispetto ai quali si cerca di mantenere la rotta, ovvero attraverso un patto educativo fra adulti, attraverso lo strumento della quotidianità, e quindi del tempo, e della necessità di non sprecarlo: perché, quando scade, se non si è portato a casa qualcosa, questa possibilità non tornerà più». Dove e come opera? «Il lavoro si svolge all’interno di un “gruppo-appartamento” di quattro posti letto, più altri quattro minialloggi singoli. In ognuno di questi si sviluppa una parte del progetto che ha come obiettivo l’autonomizzazione della ragazza: c’è un’area di autonomia domestica, un’area di autonomia sociale, un’area di autonomia affettiva». Le è mai capitato di sentire di avere fallito con una delle “sue” ragazze? Mi è capitato diverse volte, anche se il fallimento ha, a seconda di chi lo giudica, sguardi e sensibilità molto diverse. Nei casi più gravi, partendo dal presupposto che si è solo uno strumento a disposizione delle persone, certe ferite sono talmente profonde, che la sopravvivenza è già un obiettivo raggiunto». Un messaggio per questa società che ha confuso i valori e non riconosce più il rispetto? «Temo che molto spesso le cause che determinano certe rovine, siano dovute all’incapacità degli adulti di assumersi le proprie responsabilità. Quasi sempre però, va detto, quegli stessi adulti hanno avuto a loro volta, come riferimento, degli adulti fragili».
«All’origine delle guerre ci sono spesso abbracci mancati o rifiutati», ha detto il papa lo scorso 25 aprile, incontrando oltre 80 mila membri dell’Associazione Cattolica italiana. E non c’è dubbio che i primi e più significativi abbracci si ricevono in famiglia. «La vita dell’uomo si apre con un abbraccio, quello dei genitori, primo gesto di accoglienza, a cui ne seguono tanti altri, che danno senso e valore ai giorni e agli anni, fino all’ultimo, quello del congedo dal cammino terreno. E soprattutto è avvolta dal grande abbraccio di Dio, che ci ama per primo e non smette mai di stringerci a sé, specialmente quando ritorniamo dopo esserci perduti, come ci mostra la parabola del Padre misericordioso». Il Papa ha proposto ai presenti una riflessione su tre tipologie di abbraccio: l’abbraccio che manca, l’abbraccio che salva, l’abbraccio che cambia la vita.
