Idee | Lettera.D
L’essere umano da sempre fa esperienza del limite e della finitudine, resi più evidenti nei momenti di
sofferenza, malattia e morte. Allo stesso tempo, la ricerca di senso della vita e nella vita risponde ai bisogni più profondi dell’essere umano, coinvolgendo il senso della nascita: l’accettare di non essere la propria origine, ma di venire da un’alterità; il senso del vivere quotidiano e dei valori sui quali si fonda; il senso del morire, ovvero l’accettazione della propria e altrui condizione di mortalità e la conseguente decisione per l’alternativa vuoto/assurdo/nulla o mistero/speranza/compimento. Nel giorno di commemorazione dei nostri cari defunti, è utile soffermarsi sulla nostra condizione di mortalità, proprio
perché amiamo a tal punto la vita da coglierne la preziosità in tutto, fino alla morte, poiché chi muore è un vivente!
Cominciamo col dire che il morire non va inteso unicamente come il punto finale dell’esistenza, corrispondente alla cessazione delle funzioni biologiche, ma come quel processo in atto durante tutto il corso della vita. Ancor prima che avvenga la morte biologica, se ne fa esperienza nella fine di un rapporto, nella perdita di un lavoro, nell’insuccesso, nella malattia, nel dolore e nelle mille figure di “mortificazione” che la vita riserva. Ci sono anche “lutti quotidiani” che costellano le nostre vite: sono i momenti in cui non otteniamo riconoscimento, le volte in cui le nostre aspettative vengono deluse; o quando riconosciamo di aver voltato le spalle alla sofferenza degli altri, quando la nostra negligenza ha ferito gli altri. Allo stesso modo, facciamo anche esperienza di rinascita nel corso dell’esistenza. Dunque perché sopravvive ancora il tabù, perché la congiura del silenzio attorno al morire, a un morente, a un defunto? Diversi studi hanno ormai sfatato il pregiudizio che «non bisogna pensare alla morte se no ci si deprime».
Non è affatto così, anzi l’esperienza mostra che più si fa opera di rimozione, negazione o repressione, più la si rende minacciosa, poiché si cerca di tenere a bada ciò che, pur facendoci paura, è inesorabile, universale, irreversibile, imprevedibile. Questa giornata è una buona occasione per provare a domandarci se sia possibile fare non solo della vita un cammino responsabile per imparare a morire, ma anche della morte l’evento supremo e misterioso del nascere alla vita che sta oltre la morte. Le grandi tradizioni sapienziali, filosofiche e spirituali, di tutti i tempi hanno sempre posto nel mistero della
morte il fulcro dell’esistenza.
L’interrogativo che ci hanno consegnato è se la morte debba essere solo patita o subita, o possa essere un dono. I greci lo hanno pensato da sempre: Platone, nell’Apologia di Socrate, descrive proprio come sia un bene la vita e sia un bene il morire; lo stesso afferma sant’Ambrogio, nell’elogio funebre al fratello Satiro; sostiene questa visione Benedetto XVI nella preziosa enciclica Spe Salvi. Il biblista Alberto Maggi ha persino scritto un libro dal titolo emblematico: L’ultima beatitudine, riferendosi proprio alla morte, liberata dalla sua interpretazione terrifica. Egli sostiene che si debba chiedere scusa alla morte per averla considerata per troppo tempo una nemica, quando invece è addirittura un dono di Dio, lo stesso Dio che ci ha donato la vita. C’è all’interno della tradizione cristiana, un filone di pensiero che risale a san Paolo, che considera la morte frutto del peccato, dunque come l’ultima nemica da battere prima del trionfo del regno di Dio; vi è un filone altro, minoritario, che si richiama a san Francesco d’Assisi, che nel Cantico delle Creature loda Dio per averci donato «sorella morte». Una visione questa che considera la morte come parte del ciclo della vita, non come qualcosa di estraneo da negare, da combattere. Questo è il modo in cui è realistico guardare alla morte, cioè come un aspetto importante del vivente. Tutti coloro che lavorano nel settore delle cure palliative sanno bene come lo stare vicino, dal punto di vista psicologico e spirituale, alle persone terminali, rappresenti una grande fucina di umanità e un’occasione perché, insieme ai loro familiari, possano vivere il processo del congedo con la massima dignità.
Il teologo Hans Küng ha scritto: «Perché non considerare la vita come composta anche dall’aldilà?». Quella che chiamiamo “vita eterna” anzitutto non è un premio; e poi non è solo qualcosa di futuro, essendo che noi siamo già dentro il suo grembo. Forse non dovremmo più cercare modi di evitare la morte, ma modi di intercettare il desiderio di eterno che abita nel profondo il cuore dell’uomo e, conseguentemente, stemperare l’angoscia di morte. Questo ce lo insegnano tutte le tradizioni sapienziali. Nulla perdiamo “scommettendo”, in senso pascaliano, sulla speranza del Bene Eterno che è Dio, anzi la nostra vita nel tempo ne riceve luce e direzione. Avvertire una mèta di bellezza nel viaggio della vita non diminuisce l’importanza degli impegni terreni, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno della loro attuazione. Pensare i nostri defunti felici in Dio, è la più bella commemorazione; così penso mia mamma e mio papà.