Storie
Il Selvatico, nella sua storia tutte le ragioni per salvarlo
Non solo una scuola. Approccio didattico unico, tanti gli artisti formati. Oltre al recupero della sede, occorre tornare a far insegnare i veri maestri
StorieNon solo una scuola. Approccio didattico unico, tanti gli artisti formati. Oltre al recupero della sede, occorre tornare a far insegnare i veri maestri
Se le pietre potessero parlare, le colonne che ornano il pronao dell’Istituto Selvatico ne avrebbero di cose da raccontare! Nel Trecento erano parte della chiesa di Sant’Agostino, allora uno dei luoghi di culto più belli e importanti di Padova, contigua al monastero dei Domenicani, in quella che oggi si chiama riviera Paleocapa. Durante l’occupazione francese la chiesa venne destinata a scopi militari. Nel 1813 arrivarono gli austriaci e la adibirono a deposito di fieno, per poi raderla al suolo nel 1819. Due anni dopo, esattamente 200 anni fa, fu l’architetto Giuseppe Jappelli a offrire a questi blocchi di trachite nuova vita, trasformandoli in colonne doriche per ornare il primo macello pubblico della città, in stile neoclassico.
Jappelli, artista giacobino e massone, architetto e ingegnere, realizzò l’edificio nel triangolo ricavato nelle mura cinquecentesche nello spazio di un bastione fatto saltare dai francesi nel 1801, e vi collocò al centro un’oculare rotonda. Nel 1867, quindi l’anno successivo al Plebiscito che sancì l’annessione del Veneto al resto d’Italia, il Comune di Padova approvò la proposta del marchese Pietro Selvatico di fondare la Scuola di disegno pratico di modellazione e d’intaglio per artigiani. Unico docente, lo scultore Natale Sanavio, che insegnava a casa propria, a una quarantina di allievi. Fin dall’inizio la scuola si differenziò da tutte le altre esperienze educative perché affiancava le officine all’insegnamento teorico.
Per vedere la scuola trasferita nella sede attuale, in largo Meneghetti, bisognerà attendere il 1910, quando l’ex macello venne trasferito in via Cornaro. L’anno prima per regio decreto era diventata scuola Pietro Selvatico per le arti decorative e contava 260 allievi. Da allora il Selvatico ha avuto insegnanti o studenti come Amleto Sartori e il figlio Donato, gli Strazzabosco, Nerino Negri, Rodella, Abate, Iral, Sandi, Petrucci, Brombin, Bortoluzzi e Meneghesso, solo per fare alcuni nomi, di quelli che danno lustro alla città di Padova.
Nel 2017 scatta l’allarme: la sede storica è pericolante e le classi devono essere trasferite, parte nell’ex sede della scuola professionale Ettore Bentsik e parte nella succursale di via Belzoni. I docenti esprimono la loro contrarietà. Tra loro Graziano Visintin, orafo e docente di oreficeria. Perché le difficoltà maggiori riguardano proprio il trasferimento dei laboratori.
Il loro appello è raccolto da Elio Armano, scultore ed ex allievo del Selvatico, che lancia la petizione “Salviamo il Selvatico”, raccogliendo migliaia di firme e fondando l’associazione Amici del Selvatico. «L’edificio era un unicum con la storia della cultura padovana – racconta Armano – La mobilitazione è diventata una battaglia identitaria per la città, coinvolgendo tutta una serie di realtà come la Soprintendenza, il Comitato Mura, i docenti e gli studenti». Lo scorso febbraio è stato presentato il progetto, finanziato con 2 milioni e mezzo ciascuno dalla Provincia e dalla Fondazione Cassa di Risparmio e 500 mila euro dalla Soprintendenza. Ad aprile anche il Comune ha annunciato che contribuirà con un milione di euro.
Ma i problemi non sono ancora tutti risolti. «In oltre 150 anni per quella scuola sono passati tutti i più grandi artisti padovani – ricorda Graziano Visintin – Nella storia di una scuola ci sono momenti più o meno alti, dipende dalla bravura degli insegnanti. Con Mario Pinton si è riusciti a dare vita alla scuola orafa di Padova. Ma adesso non ci sono più i cosiddetti maestri. Gli insegnanti vengono assunti non per merito, ma per titoli». Per Visintin, un ennesimo colpo all’istituto Selvatico è stato inferto dalla trasformazione in liceo artistico: «Sono stati eliminati alcuni laboratori e alcune materie. Materie che insieme concorrevano a un unico obiettivo. Il bello della scuola è proprio questo: che non ti dà una preparazione in alcuni settori specifici, ma una visione dell’arte».
Il 150° anniversario della fondazione dell’Istituto d’arte Selvatico, oggi liceo artistico, si è celebrato nel 2017. Tra le iniziative per ricordare l’evento c’è stata la grande mostra inaugurata nell’ottobre di quell’anno a Palazzo Zuckermann, Stabilimento Pedrocchi e Musei Civici. Sempre nell’ambito delle celebrazioni per l’anniversario, si tenne anche la mostra fotografica in galleria Cavour, omaggio al maestro Mario Pinton, con 34 tavole fotografiche del figlio Francesco.
F iore all’occhiello dell’Istituto d’arte Pietro Selvatico è la scuola orafa padovana, fondata da Mario Pinton e divenuta celebre a livello internazionale per la sua forte carica innovativa e la sua eleganza. Al Selvatico, Pinton si diplomò e dopo un lungo percorso che toccò le scuole di Venezia, Milano e Monza, vi tornò per dare vita, nel suo laboratorio, alla scuola dell’oro. Un episodio della seconda guerra mondiale esprime bene il suo attaccamento a questo posto. Nel febbraio del ’45 l’edificio fu gravemente danneggiato da un bombardamento e lui e Amleto Sartori dormirono alcune notti all’interno della scuola per prevenire eventuali atti di sciacallaggio. «Pur avendo percorsi diversi, condividevano l’entusiasmo per la ricostruzione post bellica basata sull’arte e sulla didattica – spiega la storica dell’arte Luisa Attardi – L’attività artistica per Pinton era strettamente connessa a quella didattica, in base a una concezione della scuola che ricorda le botteghe medievali e rinascimentali, come luogo di formazione e di scambio continuo tra maestro e allievo. È la concezione che sta alla base della cosiddetta “scuola dell’oro” di Padova, proseguita dagli allievi di Pinton come Francesco Pavan, Giampaolo Babetto e Graziano Visintin. E questo scambio tra docente e discente è un patrimonio del Selvatico che dobbiamo preservare».
A Mario Pinton, ai suoi gioielli, alle sue sculture e alla poesia, sarà dedicata una mostra in programma ai Musei civici dall’8 aprile al 3 luglio 2022. La mostra, a cura di Luisa Attardi e Mirella Cisotto Nalon, è promossa dall’assessorato alla Cultura e dall’associazione Amici del Selvatico, con il sostegno della Fondazione Cariparo. «Pinton è stato un orafo raffinatissimo, un artista, un pensatore – conferma Mirella Cisotto – ma anche un eccellente insegnante, generoso, che ha voluto condividere i suoi codici di pensiero con i suoi allievi, non a caso divenuti spesso importanti orafi. Era un profondo conoscitore della classicità, ma altrettanto attento al presente, tanto che ha potuto prefigurare il futuro, come uno dei pionieri dell’oreficeria contemporanea».
Ma c’è anche il Pinton architetto e scultore, soprattutto di arte sacra. «Le sue opere per la chiesa, come l’altare del duomo di San Lorenzo, ad Abano – osserva Cisotto – sono geometria pura, religiosità. Pinton era profondamente credente. Nelle opere affiora una religiosità così alta che sembra prescindere anche dal suo sentire personale e parla anche ai non credenti».
Si dice che Pinton abbia portato il gioiello a essere scultura. «A me piace pensare il contrario – conclude Attardi – che abbia trasferito le idee formali e spaziali dal grande al piccolo. È vero che i gioielli sono oggetti pensati per il corpo umano, ma vivono di vita propria. Alla base del suo fare artistico c’è una teoria che coinvolge tutta la sua attività».