Secondo un rapporto del Censis, la spesa per la difesa in Italia nel 2024 è stata di 25,6 miliardi, in aumento del 46 per cento in termini reali nel decennio ma a circa 1,4 per cento di Pil. Lontano da quel 2 per cento che l’Italia si era impegnata a rispettare con la Nato e lontanissimo dal 3,5 per la difesa a cui sommare un ulteriore 1,5 di più destinato a spese “per la sicurezza” al quale ci siamo vincolati più di recente. È una storia di impegni in larga misura disattesi quella che ci lega al Patto atlantico, ma per cosa spendiamo i nostri soldi? In base al principio del burden sharing, condivisione degli oneri, il Parlamento si era detto disposto a raggiungere il 20 per cento della quota del budget della Difesa da destinare agli investimenti, alle missioni, alle operazioni e ad altre attività. «Nella spesa militare ci sono tre componenti – spiega Giorgio Beretta, analista del commercio di sistemi militari per la Rete italiana pace e disarmo – C’è la spesa per il personale militare, nella quale l’Italia è il Paese che in proporzione spende di più in ambito Nato. Poi c’è una spesa che è quella destinata all’armamento, dove il governo stanzia le risorse in base alle esigenze delle diverse forze armate, se vengono accettate, di produzione, dell’acquisizione di nuove armi, navi, e mezzi. E poi, ultima componente è quella d’esercizio, che vuol dire mantenimento delle caserme, delle missioni all’estero». «Il personale militare italiano ammonta a 171 mila unità – calcola il Censis – Siamo preceduti soltanto da Stati Uniti (1,3 milioni), Turchia (481 mila), Polonia (216 mila), Francia (205 mila) e Germania (186 mila)». La Camera dei Deputati fornisce dati diversi dal Censis sui capitoli di spesa ma piuttosto chiari nella proporzione: nel 2024, a fronte di circa 21,2 miliardi di spese correnti, le spese in conto capitale si fermano a 7,9. Diversamente dovrebbe andare nel 2025 anno in cui, a fronte di un sostanziale pareggio alla voce corrente, il capitale aumenterebbe a 9,6 miliardi di euro. Non tutte le spese in conto capitale sono armi propriamente dette – anche perché per molti sistemi vale la logica del dual use, ovverosia la possibilità di utilizzare tecnologie, strumenti e prodotti sia per scopi militari che civili – ma bisogna ricordare che l’Italia e l’Europa non sono solo grandi compratori ma anche grandi produttori ed esportatori: «Buona parte degli armamenti prodotti in Italia rimangono in Italia – chiarisce ancora Beretta – ma degli altri, quelli che vengono esportati, un 50 per cento va al di fuori del perimetro Nato. La legge 185/1990 ha una clausola che a oggi è comune a tutti i Paesi europei, ma che abbiamo istituito per primi: qualora un sistema d’arma, dei componenti o dei materiali per l’armamento prodotti dall’Italia e venduti a un Paese estero, quel Paese estero volesse venderli a un terzo Paese, il Paese estero deve richiedere il permesso all’Italia». Questo limita molto la possibilità che armi italiane finiscano per alimentare conflitti, ad esempio, nei Paesi in via di sviluppo. Cosa produce l’Italia? «Produciamo navi, cannoni, proiettili, sistemi elettronici per la difesa, radar, equipaggiamenti per i mezzi corazzati, armi da combattimento, missili, siluri – fa il punto Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa – La nostra industria da sola o in partnership con altre aziende europee produce quasi tutto quello che serve per il settore difesa». Per scelta politica, però, spesso l’Italia decide di acquistare dall’estero alcuni sistemi, il caso più famoso – e articolato – è quasi sicuramente il caccia americano F-35. «In tre, poi, abbiamo esportato – continua Gaiani – soprattutto sistemi missilistici, navi da guerra, cannoni navali, aerei di addestramento avanzato che sono tra i migliori al mondo, oltre a mezzi blindati, anche ruotati». L’M-346, addestratore prodotto da Leonardo e nato da un accordo interrotto nel 1999 tra l’allora Aermacchi e la russa Yakovlev, diventerà nei prossimi anni il nuovo velivolo delle Frecce Tricolori dopo esser stato venduto a decine di Paesi nel mondo. «Non se ne parla mai, ma negli ultimi tre anni tutto il costo di materie prime impiegate, come l’acciaio e l’energia, ha avuto una crescita di prezzo spaventosa, dalle tre alle sette volte – riprende il direttore di Analisi Difesa – Questo significa che se noi spendessimo per comprare armamenti il triplo o il quadruplo di quello che spendevamo nel 2020, compreremmo oggi, se ci va bene, le stesse cose e lo stesso numero di cose che compravamo nel 2021». L’inflazione colpisce anche il carrello della spesa delle forze armate, insomma, e rischia di mangiarsi buona parte dei tanto strombazzati aumenti di bilancio. Questo è un problema duplice perché oltre a lasciarci sguarniti di ciò che avevamo già e che abbiamo destinato al sostegno dell’Ucraina, ad esempio, mette in seria difficoltà le aziende europee che devono sopportare costi elevati che ne limitano la competitività. «Qual è il risultato? – conclude Gianandrea Gaiani – Il carro armato ultimo modello prodotto in Europa, il Leopard 2 A8 tedesco considerato il migliore al mondo, costava 29 milioni di euro alla fine del 2024, il doppio di un carro americano, mentre l’ultimo modello del carro russo T90 costa 4 milioni. Uno cinese ne costa 2 e mezzo. Il riarmo europeo è insostenibile perché andiamo a produrre su vasta scala prodotti che sono fuori mercato». E la soluzione, più che industriale, rischia di essere ancora una volta politica.
Sono gli Stati Uniti, per la maggiore, i fornitori di armi a Israele. L’Italia ha con il Paese un accordo storico che prevede lo scambio di equipaggiamenti, ricorda Gianandrea Gaiani: «Diamo elicotteri e aerei d’addestramento, loro in cambio sistemi per l’intelligence». La preoccupazione, espressa da Giorgio Beretta, è che una serie di esportazioni civili possano in realtà essere impiegate nella produzione di armamenti. Poi c’è un altro nodo: l’Italia sta comprando da Israele attrezzature militari, di fatto sostenendone l’industria.
Nel 2024 – emerge dalla Relazione annuale prevista dalla Legge 185/1990 sulle esportazioni e importazioni di materiali d’armamento – Leonardo spa si conferma la società leader in Italia nel settore della difesa con un volume di esportazioni pari a 1,8 miliardi di euro (+38 per cento rispetto al 2023). Segue Fincantieri spa con 1,5 miliardi di euro che, grazie alla commessa verso l’Indonesia, ritorna nell’elenco delle principali compagnie italiane (top 15) del “settore difesa”. In terza posizione Rheinmetall Italiaspa (426 milioni di euro), che guadagna tre posizioni rispetto al 2023 (+48 per cento). «Dalla relazione – nota Maurizio Simoncelli di Archivio Disarmo – emerge l’incremento continuo di autorizzazioni individuali dell’export italiano che, da una media di 1,5 miliardi del quindicennio 1991-2005, è arrivato a più del quadruplo».