Mosaico
In un territorio che spesso fatica a trattenere i giovani, LucA@Work nasce come un tentativo concreto di ripensare il rapporto tra fragilità, impresa e comunità. A Policoro, un vivaio ha aperto le sue porte a quattro ragazzi con autismo livello 1, trasformando un’opportunità di finanziamento regionale in un laboratorio di cambiamento culturale. Rocco Di Santo, sociologo e presidente di Presidi educativi, ripercorre la scelta iniziale: “Non volevamo creare l’ennesimo progetto protetto. L’obiettivo era mostrare che le persone con disabilità possono essere parte dei processi produttivi, non un’aggiunta laterale”. Due giovani sono stati inseriti nelle attività operative del vivaio, mentre altri due hanno curato la gestione e l’aggiornamento del sito lucatwork.it, traducendone anche i contenuti. Nessuno è stato formato a un mestiere specifico: “Li abbiamo educati all’azienda, a come si sta in un ambiente di lavoro. Il resto lo apprendi facendo, non con lezioni frontali”.
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“Il percorso ha generato 1.500 piante prodotte e vendute, dieci corner espositivi nel territorio, attività nelle scuole e la partecipazione a eventi pubblici.”
Per Di Santo, questo è il punto: rendere visibile una partecipazione reale e non simbolica. “Le piante che hanno curato non erano un esercizio. Erano parte del ciclo produttivo dell’azienda. Questo cambia tutto – sottolinea -: cambia il modo in cui ti percepisci e cambia il modo in cui gli altri ti guardano”.
Un inserimento costruito su competenze reali e autonomie possibili
Il progetto ha coinvolto giovani con competenze e attitudini molto diverse tra loro: un laureato in mediazione linguistica che ha curato le traduzioni del sito e uno studente di giurisprudenza impegnato nella comunicazione digitale, affiancati da un diplomato inserito nelle attività del vivaio. “Il problema non è solo l’autonomia dei ragazzi”, riflette Di Santo: “È anche la capacità delle famiglie di immaginare i figli come lavoratori adulti. C’è un’infantilizzazione della disabilità che pesa tantissimo”. Per questo nel progetto è stato previsto un lavoro di parent training pensato per accompagnare anche i genitori nel cambiamento di prospettiva. Un altro fronte riguarda le aziende. Secondo Di Santo, la resistenza più forte è culturale: “Quando entri in un’azienda con l’etichetta di disabilità, la prima risposta è quasi sempre no. Molti preferiscono pagare le sanzioni previste dalla legge 68/1999 piuttosto che assumere”. La sfida è convincere che l’inclusione non è un gesto di carità, ma una scelta razionale.
“Le aziende non devono vedere la disabilità, devono vedere le potenzialità delle persone. Quando conoscono i ragazzi, lo stigma scompare. È successo anche nel vivaio: dopo pochi giorni vedevano lavoratori, non etichette”.
La metodologia utilizzata, il training on the job, permette di apprendere osservando e svolgendo la mansione sotto supervisione, una modalità efficace per chi ha un funzionamento orientato alla concretezza. “L’autonomia non nasce in un’aula. Nasce in un luogo reale, con compiti veri e tempi veri”, afferma Di Santo.
Un territorio che cambia sguardo e costruisce nuove opportunità
Attorno al progetto si è formata una rete di relazioni che ha coinvolto negozi, bar e ristoranti del territorio, disponibili a ospitare piccoli punti vendita delle piantine aromatiche. Per gli esercenti non si è trattato di un gesto di benevolenza: “Hanno aderito perché il prodotto era buono e perché c’era una storia credibile. Il territorio risponde quando vede serietà e impegno”, spiega Di Santo. Lo slogan scelto, “Coltiviamo sapere e raccogliamo consapevolezza”, esprime la volontà di far crescere una cultura del lavoro inclusiva, capace di riconoscere la pluralità delle competenze. Nelle scuole della zona sono stati organizzati incontri per sensibilizzare studenti e insegnanti, mentre i giovani coinvolti hanno partecipato a convegni e iniziative pubbliche.
“Ora, conclusi i fondi iniziali, la sfida è la sostenibilità: dal prossimo anno l’azienda vivaistica potrebbe assumere direttamente alcuni ragazzi, segno che il percorso ha generato fiducia e valore.”
“Rispetto a quindici anni fa, quando parlavamo di inclusione quasi solo in teoria, oggi è più semplice trovare aziende sensibili. Serve ancora molto, ma qualcosa si muove”, osserva Di Santo. Per lui, l’obiettivo ultimo non è solo l’inserimento lavorativo, ma la costruzione di un’identità adulta: “Una persona non è definita dalla diagnosi. È definita da ciò che può fare. Se il lavoro diventa un luogo che riconosce e valorizza le potenzialità, allora l’inclusione smette di essere un concetto astratto e diventa una realtà possibile”.